Speciale #3: La galera incorporata
Intervista ad Alessandro Maculan: fare ricerca sulla Polizia Penitenziaria.
Parata della Polizia Penitenziaria. Credits foto: Invictus Concorsi.
Ciao a tuttə,
Questa è Fratture, la newsletter che una volta al mese racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Ci siamo lasciatə lo scorso 15 marzo, quando è uscito il nostro terzo numero, “Uno nessuno e centomila sindacati”, dedicato alle organizzazioni sindacali di Polizia Penitenziaria (PP) e alle loro ambiguità. Oggi, invece, vi proponiamo un'intervista ad Alessandro Maculan, dottore di ricerca in Scienze Sociali e assegnista presso l’Università degli Studi di Padova. Maculan coordina inoltre l’osservatorio dell’associazione Antigone in Veneto ed è autore del libro La galera incorporata, un’etnografia sulla PP condotta tra il 2012 e il 2014 in un carcere del Nord Italia e uscita per Maggioli Editore nel 2022.
PS: Crediamo sia importante alternare nei nostri speciali quanti più sguardi possibile per mettere a fuoco l'istituzione carceraria da angolazioni differenti. Così, dopo aver intervistato l'educatore Fabrizio Bruno (#1) e il collettivo Chemical Sisters (#2), questo numero avrà un taglio un po’ più accademico rispetto al solito. Nella speranza, però, che i nostri contenuti rimangano sempre accessibili.
Buona lettura!
Nel secondo capitolo del tuo La galera incorporata esplori la parte più metodologica e di ricerca. Quando hai cominciato a occuparti di carcere e, più nello specifico, di PP? Quali sono stati i tuoi timori nell’approcciarti a questo campo?
«Mi sono avvicinato alle tematiche del carcere più di dieci anni fa, quando con la mia tesi magistrale in sociologia ho studiato i processi di criminalizzazione dei migranti, andando ad intervistare detenuti stranieri e ricostruendone le storie biografiche. Quello è stato il mio primo contatto forte, ma ho fatto anche un tirocinio con Ristretti Orizzonti, nota rivista penitenziaria. Durante il dottorato, ho deciso di continuare a occuparmi di questo ambito: adesso ci sono molte ricerche in Italia, soprattutto di tipo qualitativo, sul contesto penitenziario; allora, attorno al 2010, ce n'erano davvero poche. E uno dei campi ancora non tanto indagati in Italia era sicuramente quello della PP. Rispetto ai timori e le preoccupazioni, la mia prima paura era quella di non riuscire a fare ricerca. E lì io fui davvero fortunatissimo perché l'allora provveditore dell’istituto dove avevo intenzione di fare la ricerca era una persona che, per la sua disponibilità, potremmo definire una “mosca bianca” nell’amministrazione penitenziaria: nel giro di tre giorni ho ricevuto l'autorizzazione per somministrare questionari, fare interviste e osservazioni. Poi ovviamente c’è stata tanta negoziazione, fatica e preoccupazione di non riuscire a portare avanti la ricerca, perché non è detto che anche metaforicamente ti vengano aperte determinate porte».
Per quanto riguarda gli agenti penitenziari con cui sei entrato in contatto, hai osservato se esistano percorsi più frequenti in termini di background e motivazioni personali tra chi ha scelto di assumere questo ruolo? È possibile rilevare una discrepanza tra l'idea che un aspirante agente penitenziario ha di questo lavoro e come, poi, questo lavoro si presenta nella realtà dei fatti?
«Non posso rispondervi con dei dati di ricerca perché non ho toccato in maniera precisa queste questioni, però posso provare a condividere con voi un ragionamento. Innanzitutto, i percorsi: quando si entra in carcere, soprattutto nel Nord Italia, colpisce il fatto che la maggior parte degli agenti provenga tendenzialmente dal Centro e dal Sud Italia. Quello che emerge in parte anche dai racconti di alcuni poliziotti è il tentativo di fare carriera, nelle Forze di Polizia in generale. È un lavoro sicuro, soprattutto per persone che provengono da contesti sociali economicamente depressi. Inoltre, non necessariamente i Poliziotti Penitenziari sono persone che avevano scelto di diventarlo: molte volevano semplicemente entrare in Polizia e poi sono finite nella Penitenziaria. Negli ultimi quindici anni poi si nota che molti agenti sono giovani che prima hanno fatto il servizio militare volontario e che dopo avrebbero voluto proseguire questo percorso con le Forze di Polizia o con le Forze Armate. Riguardo le aspettative sul lavoro, a me è capitato spesso di incontrare agenti che si sentivano molto stigmatizzati, non apprezzati per ciò che fanno. Questa è sicuramente una conseguenza del fatto che la loro professionalità si svolga all'interno di mura: non è un lavoro che viene visto dalla società esterna e quindi probabilmente è più esposto anche a stereotipi, che in alcuni casi possono basarsi su qualcosa di reale, ma che possono anche provenire da rappresentazioni mediatiche dove la guardia è solo il secondino cattivo. O ancora, se si vanno ad estremizzare degli episodi come quello di Santa Maria Capua Vetere, allora tutti i poliziotti sono violenti aguzzini. Ecco quindi lo stereotipo e il fascino che ne scaturisce, soprattutto quando c'è poca conoscenza di determinati lavori».
Entrando più nel merito, molto spesso nel libro parli di “doxa”, di schemi impliciti che in qualche modo si interiorizzano e si auto-riproducono. Quali elementi definiscono per te la doxa nell’ambiente lavorativo degli agenti?
«Domanda particolarmente complessa e molto teorica. Nel libro ho utilizzato in maniera preponderante la prospettiva teorica di Pierre Bourdieu. Ritengo che la doxa sia un fattore assolutamente centrale, l'architrave del funzionamento del penitenziario e delle rappresentazioni che lo caratterizzano. Nel libro, quando parlo di “doxa della PP”, la intendo come qualcosa che non si riesce a vedere, ma che viene considerato assolutamente naturale e ovvio, oltre che un sottoinsieme di una doxa più generale, ovvero quella penitenziaria. Nella mia ricerca, uno degli aspetti più macroscopici è la rappresentazione del detenuto come “altro”. La percezione di alterità nei confronti della persona reclusa alimenta poi tutta una serie di rapporti impostati su una logica di “noi contro di loro”. Il detenuto, inoltre, viene spesso percepito come pericoloso e imprevedibile per sua natura, in modo innato, e questo ha naturalmente delle ricadute pratiche particolarmente forti sui comportamenti della PP. Nel contesto che ho studiato, gli episodi critici non erano quotidiani, ma stare sempre all'erta è un atteggiamento che si assume ogni giorno per non farsi cogliere impreparati. A comporre la doxa ci sono poi altri fattori: l'isolamento sociale e il sentirsi continuamente sotto attacco dal mondo esterno, anche per il fatto che si tratta di un lavoro che non è visibile ed è esposto a pregiudizi e stereotipi. C’è, in più, tutta una dimensione legata al genere: il lavoro del poliziotto penitenziario è visto come unicamente per maschi. Prima degli anni ‘90, gli agenti di custodia erano un corpo totalmente maschile, quindi la figura femminile in questo corpo è relativamente nuova. Penso ci sarà un’apertura sempre maggiore nei confronti della componente femminile all'interno del Corpo. Credo anche, però, che fino a quando nelle carceri maschili alle donne verranno preclusi determinati compiti - soprattutto quelli a contatto con le persone ristrette - il processo sarà lento. La doxa, quindi, ha una componente cognitiva, ma anche pratica e corporale».
Sempre in riferimento alla doxa, hai individuato elementi di discriminazione e razzializzazione nel caso della PP?
«Queste componenti emergono sicuramente. C’è l'idea diffusa, almeno tra una parte dei poliziotti che ho incontrato, di alcune categorie di detenuti: ad esempio, “i magrebini” sono visti come “quelli che si tagliano”. A questa tipologia di detenuti viene associato maggiormente un carattere di imprevedibilità, con conseguenze anche pratiche: diventano persone da attenzionare maggiormente. Esistono anche altre categorie informali che vengono create, riprodotte e accettate dai poliziotti penitenziari; tra queste, i detenuti “vecchia scuola” che devono essere trattati in un determinato modo, secondo il “codice del detenuto”, e le persone in alta sicurezza che fanno o facevano parte di subculture legate per esempio alla criminalità organizzata. Si tratta spesso di rappresentazioni che tentano di dare una sintesi: avere uno o due agenti che lavorano in una sezione da centocinquanta persone rende necessario assegnare ogni persona a una categoria per ottimizzare il lavoro e prevedere determinati comportamenti».
Nella tua esperienza pratica, questo tipo di schemi più o meno impliciti si sono tradotti in atteggiamenti e comportamenti discriminatori? Riporteresti queste situazioni a un tipo di cultura che ovviamente esiste anche fuori dal carcere, machista ed eteronormata?
«Sicuramente. Questi schemi di cui parliamo assumono forme particolari, che vengono filtrate attraverso il contesto penitenziario, ma hanno chiaramente un forte collegamento con il mondo esterno. Il livello di complessità ulteriore rappresentato dal campo penitenziario può portare a effettive discriminazioni che, però, in un luogo talmente particolare come il carcere, possono assumere forme diverse, più difficili da delineare rispetto all’esterno. Più che discriminazioni di un operatore nei confronti di un detenuto, poi, è molto più facile assistere a discriminazioni da parte delle istituzioni verso specifiche categorie, per esempio laddove vengono organizzate delle sezioni cosiddette “etniche” più o meno omogenee per origine, come una sezione di giovani nordafricani con una povertà molto diffusa. Si rende così la vita in quella sezione molto difficile, forse con l'obiettivo di isolare determinate sacche di conflittualità. A livello individuale (agenti-detenuti o educatori-detenuti) le interazioni non sono così frequenti. Dobbiamo quindi partire dalle categorie che abbiamo al di fuori del carcere per contestualizzarle».
Per concludere il discorso sulle doxa, che margine esiste secondo te per mettere in discussione questi schemi all'interno del contesto carcerario? Nella tua esperienza sul campo, hai incontrato forme di resistenza alla doxa prevalente?
«Nel momento in cui cerchi di mettere in discussione delle forme di dominio simbolico tanto forti, o ti poni totalmente in contrapposizione e ne devi pagare conseguenze, oppure cerchi di giocarti il sistema in maniera strategica, però piegandoti comunque alle regole del contesto che ti sta schiacciando. Ecco, forse Bourdieu direbbe che non è possibile uscirne. La doxa è una forma di adesione, un dato per scontato profondissimo e quindi difficile da mettere in discussione, perché prima di tutto è difficile riconoscerla. Il grande problema credo sia il fatto che la doxa, come ho detto prima, è l'architrave per l'esistenza del penitenziario stesso e quindi, se la si mette in discussione, si manda in crisi l’intero sistema. Per questo fatico a immaginare un dipendente dell'amministrazione penitenziaria, nella fattispecie un poliziotto penitenziario, che metta praticamente in discussione la doxa: farlo vorrebbe dire mettere in discussione ciò che permea quotidianamente l'esistenza stessa del carcere e del suo ruolo all'interno di quel contesto. La risposta è estrema: secondo me, soprattutto da parte di chi in carcere ci lavora, non è possibile. È possibile però trovare tante forme di adattamento, e non penso adesso soltanto ai poliziotti, ma anche agli educatori e ai dirigenti, che possono mettere in atto tutta una serie di pratiche per cercare di modificare il campo, ma sempre all'interno delle sue leggi. In più, essendo comunque tendenzialmente abolizionista, quello che mi viene da dire è che l'unico modo attraverso il quale provare a mettere in discussione la doxa è quello di abbracciare un approccio abolizionista in termini generali: non dare per scontata l'esistenza del carcere in sé. Ovviamente quella abolizionista non è una prospettiva mainstream e questo dimostra quanto sia difficile comunque mettere in discussione la doxa: se già per esempio attivisti e studiosi fanno fatica a metterla in discussione, figuriamoci chi lavora, chi ci campa, chi ci guadagna lo stipendio».
Almeno in teoria, il ruolo degli agenti penitenziari dovrebbe essere quello di esercitare sì un’azione di controllo, ma anche di prendere parte al percorso di rieducazione delle persone detenute. Qual è il rapporto della PP con la funzione rieducativa?
«Questa è una domanda complessa, non solo in relazione alla PP, ma anche rispetto a cosa sia la rieducazione in carcere. In base alla legge del Novanta, il corpo dovrebbe partecipare alle attività di trattamento: sono passati più di trent'anni e a mio avviso è ancora molto dubbio in cosa consista questa partecipazione. Io, tra l’altro, mentre facevo la mia ricerca avevo provato ad indagare questa questione e le risposte sono state molto diversificate. C'era chi vedeva il proprio contributo nel permettere lo svolgimento delle attività attraverso la sorveglianza, qualcun altro invece nel proporre un modello positivo attraverso il proprio esempio. Quest’ultima interpretazione è abbastanza preoccupante perché si inserisce in una rappresentazione che vede il poliziotto come appartenente al mondo della legalità e il detenuto al mondo dell'illegalità. Quando un paio di anni fa in un panel ho incontrato Pietro Buffa, allora dirigente dell'amministrazione penitenziaria, lui ha detto che i poliziotti penitenziari non hanno deciso di fare questo lavoro per fare educazione, ma per fare appunto i poliziotti. La parte della rieducazione rimane quindi una questione sempre molto laterale, che poi può essere potenziata e sviluppata in maniera individuale da alcuni agenti. Parliamo, però, di percentuali davvero piccole rispetto al totale. La rieducazione dovrebbe essere qualcos'altro e qui però si apre anche un'altra domanda: cosa dovrebbe essere la rieducazione? Avere come in Italia una media di un educatore ogni settanta-ottanta detenuti, con picchi di un educatore ogni cento-duecento detenuti?».
Suicidi, rivolte e nuovi casi di tortura sono all’ordine del giorno. Dal canto loro, i sindacati di PP sembrano avere in tasca le soluzioni per ogni problema: taser, bodycam, più personale, etc. Quali sono gli interessi di queste organizzazioni sindacali?
«In Italia sarebbe necessaria una ricerca sui sindacati che, al momento, non c'è. Le istanze sono più o meno le stesse per tutti i sindacati e in sintesi mirano a rafforzare il ruolo del poliziotto all'interno del campo penitenziario. Queste richieste si pongono in contrasto ad alcuni cambiamenti che ci sono stati nel corso degli ultimi quindici anni e che hanno reso il carcere più “aperto”, ad esempio la sorveglianza dinamica. In generale, la posizione dei sindacati è sempre molto netta: io ricordo bene quando dopo gli avvenimenti di Santa Maria Capua Vetere e dopo la pubblicazione dei video delle violenze il Sappe - o qualche altro sindacato - all'indomani dell'uscita di queste immagini criticava in maniera molto forte alcune testate giornalistiche per aver messo in prima pagina i volti di alcuni degli indagati tra la PP, violandone quindi la privacy. Non hanno preso nessuna posizione, non si sono assunti alcuna responsabilità rispetto a quella che è stata la mattanza. Possiamo essere d'accordo nell'essere garantisti, ma il fatto che questa sia stata per loro la prima cosa da sottolineare ci fa davvero capire quali siano le priorità di un sindacato».
Quali sono state le difficoltà maggiori che hai incontrato durante la tua ricerca?
«È stato complicato e spesso frustrante, anche se poi, guardandomi indietro, forse è stato anche più facile di quanto avessi immaginato. Quando facevo l'etnografia, ogni giorno poteva essere l'ultimo: avrebbero potuto allontanarmi in qualunque momento. Forse ero eccessivamente preoccupato, però non è facile muoversi in carcere. Mi sentivo un peso, tutti i giorni dovevo andare dal comandante e chiedergli dove potessi andare. Se lui non c’era, lo aspettavo fuori dall’ufficio, nel corridoio; la gente passava e mi guardava male, perché era assurdo che una persona rimanesse ferma in quel punto. In generale, però, le cose positive ci sono state, ad esempio ho trovato sempre curiosità e disponibilità da parte degli agenti con cui ho passato più tempo. Probabilmente perché avevano anche loro bisogno di raccontare il loro lavoro».
Come accennavi prima, ti rispecchi in una prospettiva abolizionista. Partendo da qui, ma considerando anche il fatto che il carcere per ora esiste e che la sua abolizione è una prospettiva lontana: pensi che alcuni cambiamenti nell’ambito penitenziario, sia a livello materiale che simbolico, potrebbero portare a una minore conflittualità e a un maggiore benessere sia delle persone detenute che di chi ci lavora?
«Abitando un paradigma più riformista, sì, ci sarebbero degli elementi che vanno a toccare ambiti diversi: innanzitutto una depenalizzazione di determinati reati in modo tale da ridurre gli ingressi all'interno del carcere. Se le carceri italiane hanno una capacità massima di 60.000 posti, non siamo obbligati a riempirli tutti. Siamo talmente assuefatti a questa idea del sovraffollamento che sarebbe auspicabile raggiungere il 100% e non il 120-130%, però anche il 60% non sarebbe male. Quindi, cominciare a depenalizzare determinati comportamenti e utilizzare davvero il carcere come extrema ratio. Poi, potenziare le misure alternative, senza che però esse crescano contemporaneamente ai tassi di carcerazione, come sta accadendo da circa quindici anni. Ancora, aprire il carcere al mondo esterno sempre di più, ad esempio attraverso le associazioni di volontariato e i contatti con i familiari; potenziare gli spazi per i colloqui intimi con i propri cari che contribuiscono in maniera forte ad attenuare la sofferenza della detenzione, ma anche in maniera lungimirante a mantenere rapporti stabili che poi saranno utili nel momento dell'uscita. Infine, puntare su quello che dicevo prima: ancora non sappiamo bene cos'è, ma investire nella rieducazione, quindi direi aumentare il personale all'interno degli istituti dedicato a questa funzione. Così sicuramente si andrebbe nella direzione di un carcere meno afflittivo. Bisogna fare però sempre attenzione ad un aspetto e così rendo ancora più complessa la questione: non si può pensare al carcere come a un mondo slegato da quello esterno. Se le persone entrano in carcere perché alcuni comportamenti vengono criminalizzati, se abbiamo vaste aree di marginalità e di povertà che ciclicamente entrano in carcere, allora il problema non è solo il carcere, ma è anche la crisi che da tantissimi anni affligge i sistemi di welfare. Il carcere è solo uno degli strumenti attraverso il quale controllare e gestire chi non gode di tutta una serie di benefici presenti nella nostra società, come forma di controllo su chi viene marginalizzato. E questo vale anche per un discorso abolizionista, che non può reggere se ragioniamo soltanto dicendo di chiudere le carceri o renderle davvero una extrema ratio. Il carcere è strettamente legato a un sistema economico capitalista nel quale siamo immersi e che è una parte di quel meccanismo, quindi non possiamo davvero pensare di eliminare il carcere se non ripensiamo anche i modelli sociali, economici, culturali che utilizzano il carcere come strumento di esclusione».
Qualche consiglio:
Il libro oggetto di questa intervista: La galera incorporata, di Alessandro Maculan (Maggioli Editore, 2022).
L’archivio dell’Associazione Contro gli Abusi in Divisa (Acad) che raccoglie le storie di chi ha subito violenza da agenti, talvolta penitenziari.
I procedimenti penali monitorati dall’associazione Antigone su casi di violenze, torture, abusi, maltrattamenti e decessi registrati nelle carceri italiane.
La rivista del Sappe, Polizia Penitenziaria SGS, per toccare con mano in che cosa consiste la comunicazione di un sindacato autonomo di PP. Ecco un esempio: “Crisi del carcere: ancora sugli articoli del quotidiano Domani, italico esempio di doppia morale”.
Pestaggio di Stato, il podcast di Nello Trocchia che racconta la mattanza avvenuta all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere nel 2020. La scorsa domenica è uscito il terzo episodio.
Grazie per essere arrivatə fin qui.
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A presto!
Mafalda, Nicolò, Gina ed Elisa
Un ringraziamento speciale per questo numero va ad Alessandro Maculan.
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