Speciale #2: Contro la guerra alle droghe
Intervista alle Chemical Sisters: riduzione del danno, carcere e pratiche possibili.
Casa Circondariale di Sassari. Questo è il carcere in cui nel 2022 è morta di overdose una persona detenuta. Credits foto: InfoAut.
Ciao a tuttə,
Questa è Fratture, la newsletter che una volta al mese racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Ci siamo lasciatə lo scorso 15 febbraio, quando è uscito il nostro secondo numero, “Grammi”, dedicato a droghe, consumo e criminalizzazione nell’universo carcerario. Oggi vi proponiamo uno speciale di approfondimento sulla Riduzione del Danno.
NB: l’intervista al collettivo Chemical Sisters è fruibile in una versione sintetica, leggendo questa newsletter, o integrale, ascoltando la registrazione audio.
Buona lettura!
La Riduzione del Danno in Italia: facciamo il punto.
Le politiche sulle droghe in Italia sono oggi principalmente incentrate su un approccio punitivo e moralizzante nei confronti delle persone che usano sostanze. È paradigmatica, in questo senso, la proposta avanzata lo scorso anno dal sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, che ha identificato la chiave per risolvere il problema del sovraffollamento nelle carceri italiane con il trasferimento delle persone detenute, registrate come “tossicodipendenti”, in comunità terapeutiche chiuse in stile San Patrignano. Sempre Delmastro chiarisce in un’intervista a Il Messaggero la sua idea di trattamento per chi usa sostanze: «La comunità sarà controllata 24 ore su 24, se scappi hai bruciato la tua seconda possibilità e sarai perseguito per il reato di evasione. E lo Stato, come un buon padre di famiglia, non potrà più fidarsi».
A problematizzare le intenzioni del sottosegretario è intervenuto, tra gli altri, il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, che raccoglie al suo interno 240 organizzazioni attive nei settori del disagio e dell'emarginazione. Secondo la presidente Caterina Pozzi: «Le comunità non devono diventare delle carceri private, la detenzione non è lo strumento per facilitare la cura e il percorso di riabilitazione. A livello normativo sono già previsti dei percorsi alternativi, poco utilizzati e non sufficientemente sostenuti a livello economico e culturale». Non a caso il trattamento obbligatorio era già stato duramente criticato da diversi organismi delle Nazioni Unite. Il Working Group on Arbitrary Detention, ad esempio, ha evidenziato in un report del 2021 come la detenzione non debba diventare uno strumento coercitivo per obbligare le persone a "disintossicarsi" contro la propria volontà. Nel 2022, anche il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali ha espresso preoccupazione per la situazione in Italia, dove l’approccio punitivo viene preferito a un serio investimento nei servizi di Riduzione del Danno (RdD).
In un articolo per la rivista scientifica The Future of Science and Ethics, Grazia Zuffa sottolinea, inoltre, la pervasività della visione patologizzante legata all'uso di sostanze, comune sia al trattamento punitivo che non punitivo. Zuffa: «Ambedue si rifanno al paradigma che vede l'uso di droga e la dipendenza come "malattia" (disease model): una malattia che rende la persona incapace di gestire la propria vita, da curare perciò con l'astinenza, eliminando la droga. Ma l'astinenza è anche l'imperativo del paradigma "morale", che a suo tempo ha fondato l'edificio proibizionista punitivo: il quale esce rafforzato (piuttosto che indebolito) dal modello malattia, in virtù dell’enfasi sui danni chimici delle droghe».
In questa scena tratta dalla serie Boris, Pedro Benitez, conosciuto anche come "lo scalatore delle Ande", lancia un messaggio "all'italiana": «Ragazzi, non drogatevi. Ho perso la corsa della vita a causa di quella robaccia».
La RdD può invece rappresentare un'alternativa efficace all'approccio repressivo evidenziato da Zuffa. Per RdD si intendono tutti quegli interventi di prossimità che non mirano a proibire l'uso di sostanze, bensì a costruire un ambiente sicuro e consapevole in cui poterlo fare. Alcuni esempi sono la somministrazione di siringhe, preservativi, opuscoli informativi, naloxone (farmaco usato come antidoto in caso di sovradosaggio od overdose) e la predisposizione di spazi accoglienti dove consumare droghe in sicurezza. A differenza di altri metodi, la RdD mette al centro l'autodeterminazione della persona e la sospensione del giudizio nei confronti delle sue scelte.
In Italia, però, nonostante sia inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza già dal 2017, la RdD continua a essere un approccio trascurato, complice anche l’assenza di linee guida nazionali. Come spiegato nel XIV Libro Bianco sulle Droghe da Susanna Ronconi - ricercatrice attiva nel campo della RdD già dagli anni Novanta - l’esistenza di differenze tra Regioni si traduce in una disparità nella tutela dei diritti delle persone che usano sostanze. Infatti, i servizi di RdD attivi sono poco più di 150 e coprono solo un quarto del Paese, lasciando sprovviste molte regioni del Sud Italia e le Isole.
Sempre Susanna Ronconi, in un articolo di Fuoriluogo pubblicato anche su il manifesto, sottolinea l’inadeguatezza delle politiche italiane rispetto alle indicazioni contenute nel report dell’Alto Commissariato Onu dei Diritti Umani (OHCHR) del 2023 : «Se l’OHCHR raccomanda di decriminalizzare i reati minori, l’Italia inasprisce le pene per i fatti di lieve entità; se raccomanda la RdD come politica cruciale per il diritto alla salute, l’Italia la stigmatizza e la boicotta; se invita a considerare ipotesi di controllo legale dei mercati l’Italia demonizza la legalizzazione della cannabis; se considera fondamentale il rispetto di chi consuma, la destra italiana rigetta l’acronimo PUD, Persone che usano droghe, perché legittimerebbe l’uso di sostanze. E via elencando».
A questo riguardo, ecco il nome dell’ultima campagna di comunicazione del nostro governo contro l’uso di sostanze: “Tutte le droghe fanno male, scegli le emozioni vere”.
Campagna di comunicazione “Tutte le droghe fanno male, scegli le emozioni vere”.
Se nella realtà extramuraria le esperienze di RdD sono insufficienti, all'interno delle carceri ciò non è neanche contemplato. Nonostante la circolazione e il consumo di droghe negli istituti avvenga alla luce del sole, l'amministrazione penitenziaria e il governo perseverano nel considerare la "disintossicazione" coatta come l'unica strada percorribile, mantenendo un approccio moralizzante, patologizzante e paternalistico al tema. Al contrario, le persone detenute dovrebbero avere accesso a strumenti di prevenzione alla pari di chi usufruisce dei servizi di RdD fuori dal carcere, per tutelare il proprio diritto alla salute e alla cura.
È necessario quindi criticare l’attuale sistema penale punitivo e affrontare il fenomeno delle droghe da una prospettiva differente, capace di smarcarsi dall’afflato securitario, repressivo e stigmatizzante tanto caro alle attuali politiche governative. Solo depenalizzando i reati connessi al piccolo spaccio e investendo nella RdD si potrebbero ridurre le incarcerazioni e minimizzare i rischi legali, sociali e di salute legati all’uso di sostanze.
Per approfondire la nostra riflessione abbiamo avuto il piacere di intervistare le Chemical Sisters, un collettivo transfemminista e antiproibizionista. Qui potete leggere il loro manifesto.
Iniziamo. Chi sono le Chemical Sisters e di cosa si occupano.
«Chemical Sisters nasce durante il periodo del Covid, in lockdown. Parliamo quindi di quattro anni fa circa. Si forma a Torino, da un gruppo di ragazze consumatrici: è un collettivo di donne che usano droghe e che difendono i propri diritti, sia in quanto donne, sia in quanto persone che usano droghe. Il nostro è un collettivo transfemminista, quindi oltre alla tematica specifica femminile e femminista, portiamo anche i temi più specifici della transessualità e della transizione da un sesso all'altro.
Siamo partite dalla nostra esperienza personale di uso delle sostanze per poi approfondire tutte le tematiche legate al rischio, alle interazioni con ciclo mestruale o pillola anticoncezionale, con farmaci per la transizione da un sesso all'altro. Le questioni che affrontiamo sono, quindi, numerosissime e svariate. Svolgiamo attività di advocacy, intesa come partecipazione e supporto alle reti torinesi, nazionali o europee che si occupano di RdD, sia informali che formali. Infine, c’è anche la questione del carcere: adesso, per esempio, stiamo organizzando un presidio davanti al Lorusso-Cotugno con altre realtà. Chemical Sisters si occupa di diversi aspetti, ma quello fondamentale riguarda la RdD e l'uso di sostanze, con un focus specifico di genere».
Quali sono le vostre attività sul territorio torinese?
«Inizialmente lavoravamo soprattutto online a causa del Covid. Da due anni e mezzo, invece, siamo operative a Torino. Ad esempio, a volte partecipiamo il mercoledì mattina al drop-in di corso Svizzera, in un momento dedicato esclusivamente alle donne e alle persone di genere non binario. Andiamo lì con i nostri materiali, chiacchieriamo e insieme promuoviamo una cura del sé e una destigmatizzazione della donna o della persona trans che consuma sostanze. È un processo molto complesso, perché la stigmatizzazione della persona - qualsiasi stigma sia - sappiamo che è qualcosa che proviene dall'esterno e la parte difficile è anche quella di non essere noi stesse agenti di questo stigma. L’obiettivo è anche dar voce a questa categoria di persone, corpi e anime, che consumando sostanze rivendicano legittimamente il diritto al proprio consumo, al proprio piacere e alla propria partecipazione al mondo».
Svolgete anche attività di RdD come prevenzione delle violenze di genere. A cosa vi riferite?
«Attraverso un programma europeo per la prevenzione delle violenze di genere - Sexism free night - proponiamo l'approccio della RdD alle violenze di genere nei contesti del divertimento, quelli dove ci siamo conosciute e che ci hanno unito.
Questo vuol dire diffondere pensieri di non giudizio, di accoglienza e di accettazione, oltre a fornire delle informazioni il più corrette possibile riguardo all’approccio nei confronti delle situazioni violente. Non si sa mai in quale momento di una possibile storia violenta si stia intervenendo, perciò ci si deve sempre ricordare di non giudicare il fatto che una persona non accetti il nostro aiuto o almeno l'aiuto che vorremmo dare. Anche solo notando una situazione di sofferenza mettiamo in atto una pratica valida, perché comunichiamo la nostra presenza e vicinanza, la disponibilità ad esserci, magari non in quel momento, magari non il giorno dopo, ma tra un paio di giorni o quando la persona coinvolta lo vorrà.
Nelle nostre formazioni parliamo spesso del concetto definito “effetto spettatore”, un fenomeno molto noto in psicologia sociale. La definizione nasce da una storia tremenda di tanti anni fa che ha riguardato Kitty Genovese, una ragazza newyorkese [Kitty Genovese fu uccisa nel 1964 a New York City mentre molti affermavano di aver sentito le sue grida di aiuto, ma nessuno intervenne; questo evento portò a una riflessione sull'indifferenza sociale, ndr]. I dati collezionati da Sexism free night mostrano che solo il 33% delle persone che assiste a un caso di violenza interviene. Noi, oltre a dare informazioni sulla terminologia della violenza di genere e sul discorso delle sostanze, cerchiamo di sviluppare il seme dell’osservatore attivo. Se si vede una persona seduta sul divanetto, mezza incosciente, con un’altra persona lì che la sta importunando visivamente, essere un osservatore attivo vuol dire magari inventarsi qualcosa da dire, andare lì e chiedere un accendino: qualcosa che possa spezzare la tensione senza dover alimentare il circolo della violenza».
Quanto è centrale il concetto di “piacere” nelle vostre attività?
«Per noi è molto importante che ognuna possa provare piacere anche nell'usare una sostanza. Nei nostri workshop portiamo tre definizioni fondamentali, che sono uso, abuso e dipendenza. Saper riconoscere i campanelli d'allarme per un abuso o una dipendenza, distinguendoli invece da quello che è il piacere dell'uso della sostanza, cambia poi il modo che si ha di rapportarsi sia con il mondo delle sostanze in generale che con quella sostanza nello specifico. Ci teniamo anche a sottolineare che noi con sostanze intendiamo anche l'alcol, perché l'alcol - per quanto non sia una droga intesa come sostanza stupefacente - rimane una sostanza psicoattiva. Nella narrazione comune, nei discorsi un po’ più qualunquisti, l’alcol non viene visto come una droga, così come il caffè, le sigarette, il tabacco: il discorso è molto ampio e vorremmo eliminare lo stigma che produce sostanze di serie A e di serie B. La narrazione del consumo di cocaina tra colletti bianchi e persone di alta classe sociale è molto diversa rispetto al consumo di crack in corso Palermo. Tanto che in corso Palermo abbiamo l'esercito che sorveglia sui consumatori».
Come lo spazio del carcere può intersecarsi con la RdD e, più nello specifico, con le Chemical Sisters?
«Noi osserviamo da vicino questa istituzione, che è assolutamente crudele nei confronti delle persone e ancora di più nei confronti di chi usa sostanze. Tra le altre cose, molte delle persone detenute sono in carcere per reati connessi alle droghe e contribuiscono all’enorme problema del sovraffollamento. Analizzando il contesto carcerario, emerge come la dipendenza comprometta a tal punto la vita di alcune persone da portarle a ritrovarsi in un istituto penitenziario, con il risultato di essere ancora più esposte alla violenza statale in quanto persone che usano sostanze. Questo accade perché nella maggior parte dei casi il consumo non è ricreativo, cioè dedicato a momenti e luoghi specifici, ma compulsivo e spesso per strada. E quando le persone consumano per strada, non notano, a volte, la presenza ravvicinata di controlli e forze dell’ordine. I luoghi di consumo e di spaccio sono, infatti, ormai presidiati costantemente dalle forze dell'ordine e non sono quindi dei luoghi sicuri. Così, non avendo l’accesso a stanze pensate per il consumo, la persona si ritrova spesso a consumare o a comprare in luoghi non sicuri né per sé stessa né per la propria salute. In questo modo, il carcere si affolla di persone che in realtà non dovrebbero assolutamente trovarsi lì».
Quale visione della persona consumatrice emerge da queste dinamiche?
«Viene portata avanti una visione di chi consuma sostanze come di una persona malata, che proprio in quanto malata necessita di un intervento per guarirla. Si tratta chi fa uso di sostanze come se fosse unə poverinə che non ha la facoltà di poter controllare nulla del suo consumo, ma che, anzi, lo subisce e basta. Oppure, dall'altra parte, si alimenta l’immagine della persona che consuma sostanze come criminale, che - comprando, vendendo o utilizzando sostanze - compie un reato imperdonabile agli occhi dello stato. Sono detenute moltissime persone che usano sostanze e che, ripeto, non dovrebbero assolutamente essere lì, perché il carcere non è un luogo adatto e accogliente dove poter parlare o riflettere in un modo più consapevole sul proprio consumo».
Perché la RdD è fondamentale nel contesto carcerario?
«Abbiamo pensato che la RdD potesse essere utile in carcere a partire da un dato: le persone che usano sostanze ed escono dal carcere, nelle prime due settimane dall'uscita, hanno una probabilità di morire di overdose quasi 40 o 50 volte maggiore rispetto a chi non entra in carcere. Ora, dipende dalla soggettività e dal corpo, però la probabilità di morire di overdose è molto più alta, per cause prevalentemente fisiologiche: la ragione più importante è che, interrompendo il consumo, si ha un abbassamento della tolleranza e, quindi, di quanto il corpo sia resistente alla sostanza. Può succedere con gli oppiacei, ma anche con la cocaina e l’alcol. Nel caso degli oppiacei, la tolleranza scende molto velocemente. Di conseguenza, tutte le detenzioni brevi - che interessano la maggior parte delle storie di chi consuma sostanze - espongono la persona che fa uso di sostanze all’overdose. Anche solo tre o quattro giorni di astinenza sono infatti sufficienti per poter generare questo fenomeno. Noi riteniamo, quindi, che ogni morte di overdose sia una “colpa” del nostro Stato, perché tutte queste morti sono prevenibili. Esiste un farmaco, il naloxone, che è un salvavita in caso di overdose da oppiacei: tutte le overdosi possono essere evitate somministrando questo antidoto, l'importante è saperlo utilizzare e avere dunque tutte le informazioni e le precauzioni necessarie per poter consumare in sicurezza.
Nel tempo, abbiamo visto che quello di cui c’è più bisogno è un accompagnamento all'uscita dal carcere, per tentare sia di abbassare i rischi per la salute che di interrompere il ciclo della recidiva. Le persone che hanno delle dipendenze non vanno in carcere per il gusto di essere dei criminali: il ciclo del carcere e quindi la recidiva appartengono a un comportamento strettamente legato alla dipendenza. Capire questo è utile anche per cominciare a smontare, almeno un po’, il muro che contiene le persone lì dentro».
State lavorando ad altri progetti legati al carcere?
«Ci piacerebbe iniziare a parlare anche di consumi che avvengono all'interno del carcere. Questo è un fenomeno che è presente, ma che spesso non viene trattato, anche per il contesto legislativo e normativo attuale in materia di leggi legate agli stupefacenti. Sarebbe invece necessario aprire un discorso legato al consumo in carcere, non solo di sostanze illegali, ma anche tutte quelle sostanze come farmaci o psicofarmaci, di più facile accesso perché è l’amministrazione penitenziaria a somministrarle alle persone detenute. Questi discorsi sono da considerare dentro e fuori il carcere, insieme a chi è detenutə.
La RdD riguarda quindi anche la questione carceraria nella misura in cui propone l’attuazione di pratiche accoglienti e non giudicanti e una visione destigmatizzata della persona che usa sostanze. Le persone che consumano sostanze, se sono anche detenute e sono donne o persone con un’identità di genere non binaria, subiscono una stratificazione di stigma infinita, con gravi danni per la propria salute fisica e mentale. L'approccio della RdD, per questa sua particolare capacità di accoglienza, può restituire dignità alle persone che sono state categorizzate da altrə in modo negativo».
Qualche consiglio:
La newsletter Secchiate vi racconta il mondo della notte italiano, con un focus anche sull’uso di sostanze e sulla RdD.
Da gennaio di quest’anno è tornato operativo il Progetto Neutravel, che si occupa di RdD sul territorio piemontese, con attività di drug checking, divulgazione e distribuzione di materiale. Il 1 marzo, oggi, si terrà inoltre un incontro sul monitoraggio operato da Neutravel riguardo alla diffusione di nuove sostanze stupefacenti.
Per saperne di più su salute sessuale e prevenzione di Malattie Sessualmente Trasmissibili, in ottica queer e femminista, vi consigliamo la newsletter Diritti Sessuali.
Le Nazioni Unite hanno dichiarato il fallimento delle politiche proibizioniste riguardo l’uso di sostanze. Ne parla Susanna Ronconi a Fuoriluogo Podcast.
Per rimanere aggiornatə sulle iniziative e attività di Chemical Sisters, potete seguire le pagine Instagram e Facebook del collettivo.
Grazie per essere arrivatə fin qui.
Se vi va di scriverci per feedback, commenti e segnalazioni in risposta a questa mail o tramite i nostri canali, a noi fa molto piacere.
A presto!
Mafalda, Nicolò, Gina ed Elisa
Un ringraziamento speciale per questo numero va a Susanna Ronconi e al collettivo Chemical Sisters.
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