Ciao a tuttə!
Questo è il numero tre di Fratture, la newsletter che una volta al mese vi racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Oggi esploriamo le ambiguità della Polizia Penitenziaria e dei suoi sindacati.
Prima di iniziare, un suggerimento. Per immergervi appieno nell’immaginario poliziesco, trovate su Youtube il video promozionale realizzato in occasione del 207° Anniversario di Fondazione del Corpo di Polizia Penitenziaria. Un po’ Cobra 11, un po’ NCIS, un po’ Boris.
Buona lettura!
Discesa nel mondo sindacale
All’interno delle carceri italiane la figura professionale numericamente maggiore è quella dellə agenti penitenziariə (31.546). Si tratta di una categoria molto influente a livello politico, complice anche l’ingente numero dei sindacati di Polizia Penitenziaria (PP), che - come vedremo in seguito - determina la sovrarappresentazione di alcune istanze.
Le organizzazioni sindacali individuate sul piano nazionale per il triennio 2022-2024, con una rappresentatività non inferiore al 5% del dato associativo, sono: Sappe, Sinappe, Osapp, Uilpa Pp, Uspp, Cisl Fns, Cgil Fp Pp. Ma l’universo di sigle è più ricco: oltre a quelle già citate ce ne sono altre, come Fsa Cnpp, Consipe, S.Pp., Co.S.P., Anfpp-Dirpolpen, e altre ancora minori.
I sindacati di PP possono essere autonomi o confederali. I primi rappresentano solo le professioni che operano in ambito penitenziario, mentre i secondi (come Cgil, Cisl e Uil) sono presenti anche in altri settori e perseguono obiettivi più ampi. Tra i sindacati autonomi, poi, alcuni accettano iscrizioni esclusivamente da chi opera nel Corpo di PP (Sappe, Osap, Sinappe); altri, invece, estendono il tesseramento a tutte le tipologie di operatorə penitenziarə - queste ultime sono i sindacati confederali autonomi. Le organizzazioni autonome sono in generale quelle con maggiori adesioni, e, se sulla carta non sono affiliate ad alcun partito politico, nella pratica strizzano l’occhio a partiti di estrema destra come Fratelli d’Italia e Lega, che ricambiano con altrettante lusinghe e se ne contendono le attenzioni.
Il primo sindacato autonomo nasce nel 1991 ed è il Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Tra le ragioni della sua fondazione emerge chiaramente l’intenzione di ottenere un riconoscimento prioritario, anche a scapito delle esigenze di altre professionalità: «Non potevamo buttare il Corpo in mano a sindacati politici che hanno creato una serie di problemi proprio alla classe operaia, anche perché a rappresentare i confederali vi era una categoria di operatori penitenziari, quali educatori o ragionieri, che tutto faranno fuorché gli interessi della Polizia Penitenziaria […]. Abbiamo sempre creduto, e oggi più che mai, che non occorre dare deleghe a nessuno per difenderci».
Il Sappe, guidato dal segretario generale Donato Capece, è anche il primo sindacato per numero di persone tesserate, rappresentando il 23,86% dellə agenti penitenziarə iscrittə a organizzazioni sindacali. Sulle pagine della propria rivista, Polizia Penitenziaria, l’agente viene sempre difeso a spada tratta e innalzato a martire anche di fronte ai fatti più aberranti, come nel caso del pestaggio di un detenuto registrato ad aprile 2023 nel carcere di Reggio Emilia. Inoltre, il linguaggio utilizzato è spesso vittimistico e volto a narrare il Corpo di PP come un’entità di cui nessuno si cura e che non viene mai ascoltata, anzi soggetta a strumentalizzazione soprattutto quando sullə agenti pendono accuse di violenza contro le persone detenute.
Agli occhi dei sindacati, la circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che ha disposto nel 2013 l’avvio della sperimentazione della “Sorveglianza Dinamica” (SD) avrebbe esacerbato questo senso di abbandono. La SD ha messo al centro il programma trattamentale e la libertà di movimento fuori dalla cella per chi è ristrettə in carcere, riorganizzando le funzioni della PP. Lə agenti dovrebbero infatti partecipare all’opera di rieducazione, instaurando un rapporto di collaborazione sia con lə altrə operatorə penitenziariə che con le persone detenute. Se secondo la circolare questo modello favorirebbe la sicurezza negli istituti, per i sindacati la PP ne uscirebbe ulteriormente esposta agli eventi critici e, ancora una volta, vittima delle aggressioni da parte delle persone detenute.
Sostenere che l’obiettivo del sindacato autonomo sia influenzato da uno spirito cameratesco non è poi affatto eccessivo. Fare parte di un sindacato, infatti, sembrerebbe utile ad avere sempre le spalle coperte e a rivendicare l’intoccabilità del Corpo di PP, che “fa sempre e solo del suo meglio”. In quest’ottica, anche le peggiori azioni sono il risultato di un contesto imprevedibile - il carcere - dove «ogni interazione, ogni decisione presa, può innescare una reazione a catena, trasformando un ambiente già di per sé stesso molto teso in uno scenario da guerriglia urbana».
Inoltre, secondo il giornalista Giulio Cavalli, dietro la sindacalizzazione di agenti della PP ci sarebbe un vero e proprio business. Cavalli scrive su Left che nel 2021, a fronte di circa 37 mila agenti, risultavano attive 36.239 tessere: ogni tessera ha un prezzo che va dai 12 ai 16 euro mensili per un totale di 500 mila al mese. Inoltre, il tesseramento - si legge nell’articolo - sarebbe strettamente legato a un sistema gerarchico: «Un poliziotto dentro il carcere si ritrova a dover avere la tessera del proprio capo-reparto per evitare problemi, poi quella del proprio comandante che magari è iscritto a un altro sindacato e magari c'è anche l'ispettore di sorveglianza che può tornare utile per ottenere qualche permesso».
A determinare l’alto tasso di adesione ai sindacati intervengono quindi più fattori, che non sono immuni da interessi politici, economici e di potere.
Il sospetto incorporato
Le scuole di formazione per agenti penitenziariə sono attualmente nove, distribuite in modo più o meno omogeneo sul territorio italiano. A queste si accede attraverso un concorso pubblico, a cui può partecipare solo chi ha concluso le scuole medie e ha prestato servizio volontario nell’esercito. Sono previste quattro fasi: un esame scritto con domande di cultura generale; prove di efficienza fisica; accertamenti psico-fisici; test attitudinali.
Con la legge n. 395 del 1990, la PP diventa un corpo civile, abbandonando i panni militari. In questa nuova veste, lə agenti penitenziariə sono incaricatə non solo della sicurezza all’interno degli istituti, ma anche del trattamento rieducativo della persona detenuta - almeno in teoria.
Esiste, però, una prima contraddizione tra le norme che regolano l’accesso alla formazione e quanto previsto dalla riforma del 1990. Nella propria tesi di dottorato, Roberta Signori osserva:
«Sebbene il Corpo di polizia penitenziaria sia stato smilitarizzato [...], il personale viene reclutato esclusivamente tra coloro i quali hanno prestato servizio nell’esercito. Gli agenti di polizia penitenziaria sono stati dunque tutti precedentemente socializzati all’ambiente militare. In secondo luogo, viene richiesto personale senza particolari qualifiche educative e con un livello di istruzione non necessariamente elevato. [...] Se da un lato si preme verso la professionalizzazione e l’umanizzazione del personale che direttamente e su basi quotidiane interagisce con la popolazione detenuta, dall’altro si predilige la socializzazione militare dello stesso rispetto all’entità e alla qualità delle qualifiche educative e professionali».
Un’ulteriore incoerenza riguarda i programmi formativi dei corsi. Proprio in virtù della previsione di una partecipazione attiva del Corpo al trattamento rieducativo, il Ministero della Giustizia dispone su decreto che sia data uguale rilevanza all’area disciplinare relazionale e a quelle giuridiche, tecnico-operative e addestrative. Nel progetto didattico previsto per il primo semestre del 2023, tuttavia, si rileva un forte squilibrio a sfavore dell’area delle relazioni (vedi grafico sotto). La sproporzione tra aree disciplinari era stata già segnalata più volte in passato, ad esempio su Ristretti Orizzonti.
Infine, negli ultimi anni si è rilevato un restringimento della durata dei corsi di formazione. Al corso previsto di un anno, è stato sostituito un periodo di tre o sei mesi, comportando una distorsione del programma a beneficio di una maggiore percentuale di addestramento tecnico.
Durante la formazione e l’attività di tirocinio obbligatoria, così come nell’esperienza di lavoro, lə agenti penitenziariə sviluppano in modo automatico e spesso inconscio una determinata interpretazione sia di sé e del proprio lavoro (come avviene per ogni professione), che del carcere e delle persone detenute. Alessandro Maculan, dottore in Scienze Sociali, ha condotto tra il 2012 e il 2014 un’etnografia della PP in un carcere del Nord Italia, riportandone i risultati nel libro La Galera Incorporata. Scrive Maculan:
«I fattori emersi [...] sono i seguenti: la percezione di lavorare in un ambiente considerato pericoloso e imprevedibile; la rappresentazione dei detenuti come “altri da sé”; il diffuso senso di isolamento sociale percepito dagli operatori; le rappresentazioni di genere sul lavoro penitenziario [..], in uno spazio permeato da un’iper-normatività di genere e dall’esaltazione dei relativi ruoli tradizionali».
Inoltre, Maculan cita una ricerca di Elaine Crawley, docente di Criminologia all’Università di Salford, che ha rilevato «come la necessità degli agenti di stare sempre all’erta avrebbe la sua origine nei corsi di formazione, dove verrebbero formati ad essere sospettosi, ad essere continuamente pronti a far fronte a qualsiasi potenziale problema […]; vengono così istruiti ad osservare i detenuti costantemente e con grande attenzione e viene insegnato loro a non dargli fiducia».
Proprio da questa visione del contesto carcerario sono fortemente influenzate le istanze dei sindacati di PP.
È una questione di priorità
Il 23 novembre 2023, a un anno dall’insediamento del governo Meloni, i rappresentanti sindacali della PP hanno incontrato per la prima volta il Ministro della Giustizia Carlo Nordio. Erano presenti anche il vice Paolo Sisto, i sottosegretari Andrea Delmastro Delle Vedove e Andrea Ostellari, oltre a Giovanni Russo e Antonio Sangermano, che dirigono rispettivamente il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità (Dgmc). Questo appuntamento era stato molto atteso dai sindacati, che si sono potuti così rivolgere direttamente alle figure istituzionali con maggiori responsabilità sul carcere italiano.
Non viene però fatta menzione di questo incontro né sul sito ufficiale del Ministero della Giustizia né sui profili social di Delmastro, al quale Nordio ha delegato la competenza sul Dap. Rimangono così disponibili solo i comunicati delle sigle sindacali che vi hanno partecipato, a esclusione di due organizzazioni generalmente critiche rispetto alla linea del governo: da una parte la Cgil Fp Pp, tradizionalmente più legata alla sinistra; dall’altra l’Osapp, un sindacato autonomo diretto da Leo Beneduci, che carica spesso video infuocati su TikTok contro le risposte dell’attuale esecutivo, a suo avviso insufficienti.
I resoconti degli altri sindacati sono più che positivi, a tratti entusiastici, come quello del Sinappe, che dice di tributare «ogni riconoscimento all’intera compagine politica di Via Arenula [dove si trova la sede del Ministero della Giustizia, ndr], che non ha mai fatto mancare momenti di confronto». Il segretario dell’Uspp ha persino dichiarato che «i provvedimenti annunciati dal presidente Meloni sono oro per le orecchie del personale».
Nei propri comunicati, alcune organizzazioni sindacali insistono maggiormente sulla necessità di far scontare la pena delle persone detenute straniere nei rispettivi paesi di origine (Sinappe). Altre denunciano la ripartizione diseguale di un fondo previsto per le forze armate e di polizia, che per il personale penitenziario sarebbe inferiore del 50% rispetto alla Polizia di Stato e del 70% rispetto alla Guardia di Finanza (Uilpa). Altre ancora chiedono per gli agenti la dotazione del taser, un’arma potenzialmente letale che rilascia scosse elettriche in grado di immobilizzare momentaneamente una persona (Sappe).
Tutte si concentrano invece sul problema rappresentato dalle persone ristrette con disturbi psichiatrici e, in misura ancora maggiore, sulla carenza di organico. Quest’ultima è per eccellenza la condizione più lamentata dai sindacati di PP, la fonte da cui discendono, secondo la lettura di queste organizzazioni, gli altri due mali che affliggono il lavoro degli agenti: in primis, le aggressioni subite da parte delle persone detenute; in secundis, lo stress lavorativo, che viene spesso evocato per giustificare atti di violenza e abusi di potere.
In un rapporto del 2023, l’associazione Antigone evidenzia una carenza di organico pari al 15%. Se sulla carta dovrebbe esserci mediamente un agente ogni 1,5 persone detenute, nella pratica questa cifra è 1,8, con variazioni significative da una regione all’altra. Tuttavia, messo a confronto con altri Paesi dell’Europa Occidentale, il dato italiano riflette in termini assoluti una situazione di eccezionalità: secondo l’ultimo rapporto annuale del Consiglio d’Europa (2022), il numero di agenti per ogni persona detenuta in Italia è più alto rispetto a Francia, Regno Unito, Spagna, Portogallo, Belgio, Austria, Svizzera, Grecia, Malta, Danimarca e Finlandia.
Nel contesto italiano, la penuria di personale non è inoltre un problema esclusivo della PP, ma investe in misura molto maggiore altre categorie, tra cui lə funzionariə giuridico-pedagogicə (o educatorə): in media, sul piano nazionale, c’è 1 educatorə ogni 71 persone detenute. L’ampia risonanza concessa alla PP finisce così per sovrarappresentarne i bisogni, a spese dell’area trattamentale: un risvolto, questo, che tradisce la presenza ancora salda di un'idea custodiale del carcere, inteso come luogo di contenimento prima che di risocializzazione.
Per fare fronte alla carenza di organico, i sindacati chiedono quasi unanimemente la dotazione di body-cam, telecamere portatili che avrebbero la funzione di tutelare gli agenti dalle aggressioni da parte delle persone detenute. Sono già 705 i dispositivi che sono stati accordati dal Dap lo scorso dicembre, con possibilità di nuove forniture, ma come viene sottolineato nel manuale europeo “Monitoraggio della violenza in carcere” del 2021: «[...] la ricerca scientifica ha dimostrato come misure di sicurezza più elevate [spray al peperoncino, armi, indumenti protettivi e body-cam, ndr] non siano la soluzione. Al contrario, un ambiente carcerario più coercitivo è spesso correlato a tassi di violenza più elevati».
Mentre sul fronte della salvaguardia dei diritti di chi è privatə della libertà personale, nulla si muove. Se non il fatto che Sappe, Uspp e Uilpa hanno dichiarato nei propri comunicati di aver sollecitato il ministro Nordio sulla revisione del reato di tortura, che sarebbe un ostacolo ai margini operativi dellə agenti.
Storia di un grande amore
In un’analisi delle connessioni tra governo attuale e PP emerge piuttosto chiaramente un rapporto privilegiato e, in questo senso, problematico, a partire dalla figura di Delmastro.
Ottenuta per delega la competenza sul Dap, il Sottosegretario è diventato il responsabile della direzione del personale penitenziario, della sua formazione e dell’edilizia carceraria. Un mandato che porta con sé alcune criticità, considerando il conferimento a Delmastro di potere e influenza in un ambito a lui non estraneo, tutt’altro.
Delmastro intrattiene notoriamente una relazione stretta con il Corpo di PP e alcuni dei suoi sindacati. Di fatto, si tratta di un “corteggiamento” che va avanti da tempo: già nella precedente legislatura aveva portato avanti battaglie care al Sinappe (video).
Delmastro davanti al carcere di Biella - 20 settembre 2020
Solo nell’ultimo anno, il Sottosegretario si è distinto in più occasioni per la sua vicinanza allə agenti e ai sindacati autonomi.
Nella Casa Circondariale di Biella, a luglio scorso, Delmastro ha partecipato a una festa di “team building” (una grigliata, per la verità) insieme a membri del Sinappe e agenti penitenziariə, di cui alcunə indagatə per percosse, lesioni e abusi di autorità. Occorre inoltre ricordare che Sonia Caronni - Garante delle persone private della libertà personale di Biella - non era a conoscenza dell’evento; sempre lei, ha di recente subìto il furto nella propria abitazione di documenti riservati, tra cui alcuni relativi all’inchiesta aperta sulle presunte torture nell’istituto penitenziario biellese.
La scorta di Delmastro è composta - in modo inconsueto - da agenti della PP, alcuni dei quali sono passati alla cronaca per vicende particolarmente gravi: Pablito Morello, ex rappresentante locale del Sinappe e capo scorta di Delmastro, è coinvolto nei fatti di Capodanno che hanno visto il ferimento del genero a causa di un colpo di pistola sparato dal deputato di FdI Emanuele Pozzolo - alla stessa festa era presente anche il Sottosegretario; Walter Della Ragione è stato l’autista della scorta di Delmastro fino a marzo 2023, quando è stato coinvolto insieme ad altri 15 poliziotti in un'inchiesta sulle presunte torture avvenute nel carcere di Biella.
In seguito al rinvio a giudizio di Delmastro per la rivelazione di documenti riservati circa il caso Cospito, alcuni membri del Sinappe hanno indossato pubblicamente delle magliette con la scritta “Anche io sono Delmastro” per esprimere il proprio sostegno al Sottosegretario.
Insomma, si potrebbe dire ancora molto riguardo ai fili che uniscono il politico con delega alle carceri e la PP: il punto centrale rimane l’ambiguità e la pericolosità di un legame così stretto tra chi ha potere decisionale (Delmastro) e chi ha tutti gli interessi per indirizzarlo a proprio vantaggio (sindacati).
Allargando il campo, gli effetti tangibili di una messa a servizio della politica nei confronti della PP si delineano chiaramente nelle vicende che hanno riguardato il reato di tortura in Italia.
Con la legge n. 110 (2017) sono stati introdotti nel Codice Penale:
- l’art. 613 bis: punisce con la reclusione da quattro a dieci anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. In aggiunta, varie fattispecie aggravate.
- l’art. 613 ter: punisce l'istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura. In particolare, è prevista la reclusione da sei mesi a tre anni per pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l'istigazione non è accolta ovvero se l'istigazione è accolta ma il delitto non è commesso.
A un anno dall’introduzione del reato di tortura - in netto ritardo rispetto ad altri Paesi Europei -, nel 2018 Giorgia Meloni si esprimeva così:
“Difendiamo chi ci difende” - qui sopra il discorso di Giorgia Meloni in merito alle iniziative a sostegno delle forze dell’ordine presentate alla Camera dei Deputati nel 2018.
Successivamente, nel 2022 un gruppo di deputati di FdI ha presentato una proposta di legge per abrogare gli articoli 613 bis e ter. Tra gli obiettivi politici di questa azione, c’è ovviamente quello di offrire maggiore protezione all’operato delle forze dell’ordine, anche di fronte alla commissione di atti violenti. Per giustificare tali intenzioni, il ministro Nordio, nella question time alla Camera, ha definito la proposta di revisione del reato di tortura un atto puramente “tecnico”, perché in presunto contrasto con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ratificata dall’Italia nel 1989 (per approfondire, qui).
Modificare il reato di tortura ha invece un forte significato politico ed enormi conseguenze a livello processuale. Lo spiega bene Patrizio Gonnella, sottolineando che, se le proposte di abrogazione dovessero andare in porto, questo significherebbe soddisfare le richieste dei sindacati autonomi di polizia che si sono schierati contro il reato di tortura; soprattutto, poi, si metterebbero a rischio i processi basati su questo capo d’imputazione, che potrebbero essere sospesi. Di fatto, l’Italia sarebbe il primo Paese membro del Consiglio d’Europa a tentare di abrogare il delitto di tortura, avendo tra l’altro impiegato quasi trent’anni dalla ratifica della Convenzione Onu per introdurlo nel Codice Penale.
I processi per reato di tortura sono monitorati da Antigone, spesso costituitasi come parte civile nei procedimenti. In alcuni casi ci sono state condanne per tortura, come per il carcere di San Gimignano: lì, nel 2018, 15 agenti sono stati condannati sulla base del 613 bis per aver agito violenza fisica e psicologica su un detenuto. In altri casi, come quello di Santa Maria Capua Vetere o di Reggio Emilia (recentissimo), il giudizio è in corso. In generale, come ricorda sempre Patrizio Gonnella, l’introduzione del reato di tortura ha permesso di aprire numerosi procedimenti. Questi rappresentano un’ulteriore conferma di quanto sia importante mantenere un capo d’accusa che riconosca e persegua le violenze subite dalle persone private della libertà personale.
Qualche consiglio
Ecco le nostre proposte per questo numero.
Pietro Buffa, dottore di ricerca in sociologia del diritto, ha analizzato la percezione dell’uso della forza in carcere da parte di un campione di funzionari del Corpo di Polizia Penitenziaria.
Fammi vedere la luna è un videogioco ideato da ragazzə detenutə in Ipm. Chi gioca viene immerso nella storia di Aquila04, un ragazzo che ha perso la propria libertà. Si gioca qui. Se volete approfondire, invece, il processo di creazione e l’accesso digitale negli istituti penitenziari, ne parla Viola Nicolucci su Valigia Blu.
“Pestaggio di Stato” è il libro di Nello Trocchia che racconta la mattanza avvenuta all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere nel 2020.
Free Palestine
A Gaza, la fame diventa un’arma di guerra nelle mani del governo israeliano.
Racconti intermittenti raccolti da Federica Cavazzoni attraverso i messaggi di Mona Ameen, ricercatrice che viveva a nord della Striscia di Gaza, mentre si trova ora a Rafah.
Dal 7 ottobre, sono morti 27 prigionieri palestinesi nelle strutture militari israeliane. Ne parla Eliana Riva qui.
Come afferma il Palestinian Feminist Collective, il genocidio del popolo palestinese è anche genocidio riproduttivo.
Angela Davis in Freedom is a constant struggle affronta le connessioni esistenti tra la liberazione dall’oppressione coloniale e l’abolizione del sistema carcerario.
Come riportato dall’Associazione Antigone, tra le giornate del 12 e 13 marzo, a distanza di poche ore una dall’altra, si sono suicidate tre persone: il ventinovenne Jordan Jeffrey Baby nel carcere di Pavia, il ventenne Patrick Guarnieri nel carcere di Teramo, e il trentatreenne Robert Lisowski nel carcere di Secondigliano.
Dall’inizio dell’anno sono 23 le persone che si sono tolte la vita in carcere: un suicidio ogni tre giorni.
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A presto!
Gina, Nicolò, Mafalda, Elisa
Un ringraziamento speciale per questo numero va a Perla Allegri e Nello Trocchia.
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