Speciale #4: Bastoni tra le ruote
Insegnare e studiare in carcere: l'esperienza di Alessandra e Roberto.
Ciao a tuttə,
Questa è Fratture, la newsletter che una volta al mese racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Ci siamo lasciatə lo scorso 15 aprile con “Vernice”, il numero dedicato all’istruzione in carcere. Oggi vi proponiamo un’intervista doppia, in cui a rispondere alle domande saranno Alessandra, che ha insegnato per un anno nella casa circondariale di Padova, e Roberto, persona ex-detenuta che ha preso parte a percorsi didattici nell’istituto penitenziario di Ivrea.
In realtà, Alessandra e Roberto non si sono mai incontratə, ma abbiamo voluto affiancare le loro testimonianze - raccolte separatamente - per creare una sorta di dialogo in cui a confrontarsi fossero insegnante e studente.
Non è finita: leggendo questa intervista, vi imbatterete in alcuni dei disegni che Roberto ha realizzato durante il suo periodo detentivo e che sono al centro della fruizione di questo numero. Le didascalie sono quelle originali, di Roberto. In fondo, poi, troverete un racconto autobiografico, in cui Alessandra descrive alcune sensazioni dopo qualche giorno di insegnamento in carcere.
Buona lettura!
Iniziamo. Qual è stata la vostra esperienza legata alla scuola in carcere?
Roberto: «Il percorso scolastico a me è piaciuto, poi dipende da persona a persona, da detenuto a detenuto. Molti vanno a scuola in carcere più che altro per far passare il tempo. Io andavo sì per trascorrere il tempo, ma anche per fare qualcosa di costruttivo: ero sempre presente a lezione, stavo concentrato. A me la scuola interessava molto, anche in relazione alla mia passione per il disegno; ad esempio, ne ho fatti alcuni ispirati alla Divina Commedia. Quindi, anche se ero in un posto brutto, sono riuscito a far sì che il mio percorso fosse un po’ più accettabile: andare a scuola mi permetteva di essere più rilassato».
Alessandra: «Ho iniziato a insegnare in carcere perché era un'esperienza che volevo fare da tanto tempo, sono andata senza aspettarmi niente di preciso. L’impatto è stato fortissimo, non può non esserlo per chi entra per la prima volta in carcere. I giorni precedenti all’inizio delle lezioni ho dovuto fare i colloqui conoscitivi, per capire che trascorso scolastico avessero le persone interessate e indirizzarle al meglio. Era tutto un po' strano: entravo e dovevo lasciare il documento all’ingresso, indossare un pass da tenere sempre indosso, superare i controlli, avanzare lungo un corridoio, attraversare un cancello. I detenuti scendevano dai piani e mi salutavano, mi guardavano come se venissi da un altro continente. La prima settimana mi sono sentita, appunto, su un altro pianeta, con lo stomaco sempre in subbuglio. Poi, già solo dopo qualche giorno, ero più rilassata, perché avevo capito che non c'era niente di diverso dal fare scuola normalmente e che avrei avuto soltanto da imparare. Resta però il fatto che il carcere è un mondo separato, con le sue regole, in cui tu sei la straniera e, soprattutto, puoi uscire quando vuoi. Questo è l’aspetto per me più difficile da superare emotivamente».
Come si accede all’istruzione in carcere?
Roberto: «I passaggi sono tre: si deve compilare una domanda; la domanda viene trasmessa all'amministrazione; l’amministrazione decide se tu puoi frequentare oppure no. I tempi di risposta sono lunghi, peggio di quelli della burocrazia italiana. Lì, però, ancora di più rispetto al solito, dipende dall’umore in cui si sveglia di mattina chi se ne occupa. Se poi viene deciso che tu non puoi andare, non puoi andare, e basta».
Invece, Alessandra, qual è stato il tuo percorso per arrivare a insegnare in carcere?
Alessandra: «Semplicemente, nel dare la disponibilità per l’insegnamento in varie scuole del mio territorio, un anno ho deciso di indicare come preferenza la sezione penitenziaria. Non me lo aspettavo, ma sono stata selezionata. Non c’è stata una formazione specifica, al di là di qualche ora con la referente che mi ha preceduta. Ho imparato quasi tutto sul campo e attraverso il confronto con educatori, agenti e colleghi. Forse nessuno può formarti a tutto quello che succede di giorno in giorno: man mano, con l’esperienza, ho poi trovato il modo migliore per reagire a quanto avveniva».
Avevate libero accesso a spazi e materiali didattici?
Alessandra: «Io non ho mai avuto problemi di mancanza di spazio, i materiali didattici ci venivano forniti dalla scuola. Sicuramente, però, ho imparato che in carcere nulla può essere dato per scontato. Anche solo un portamine al posto di una matita poteva essere un problema. Una volta la scuola ha fornito alcuni evidenziatori, ma abbiamo dovuto subito riconsegnarli perché erano oggetti potenzialmente dannosi. Io all’inizio non ci avevo neanche pensato».
Roberto: «I materiali venivano portati dalle professoresse, da fuori, anche per accelerare i tempi. A livello di spazi, mi viene in mente la questione della biblioteca. Noi avevamo una biblioteca interna, che però non era sempre aperta, non era un posto da poter frequentare. Semplicemente, si andava a ritirare il libro e lo si leggeva in sezione. Era come un ufficio, aperto a orari imprevedibili. Infatti, spesso era chiusa; non era accessibile, non veniva considerata una cosa seria. Almeno ci si poteva andare a prendere un libro. C’era anche uno spazio dedicato al bricolage, dove poter creare cose tue, come borse o statue. Questo spazio era stato poi chiuso perché il ragazzo che lo gestiva aveva tentato il suicidio. Ma l'amministrazione non si occupa di queste cose perché non c'è una mentalità volta al reinserimento del detenuto all'esterno. Se ci fosse, l’amministrazione metterebbe a disposizione tutte quelle attività e tutti quegli spazi utili a far uscire la persona detenuta migliore di come è entrata in carcere. Invece, spesso e volentieri, le persone ne escono peggiori».
In che cosa differisce la scuola interna al carcere da quella che opera all’esterno?
Roberto: «Io ero in sezione protetta, quindi vi posso parlare di quel contesto. A scuola non avevamo ad esempio esami di terza media come fuori. La promozione era legata soprattutto alla frequenza, non al merito. Tanti venivano promossi anche senza meritare la promozione, perché si premiava più che altro la volontà di frequentare, la costanza. Vedevano che andavi, che ti interessava, e per questo ti davano la terza media. Non era, però, una scuola a tutti gli effetti valida per conseguire un esame. Non so come funzioni nelle altre sezioni, in quella protetta era così».
Alessandra: «A livello organizzativo funziona come all’esterno: ci sono gli studenti, i rappresentanti di classe, i consigli di classe, i collegi docenti, gli esami. Ancora, i compiti in classe, le interrogazioni, il PCTO (ex alternanza scuola-lavoro, ndr). Da un punto di vista didattico, qualche accorgimento lo si mette in atto. Davanti a me non avevo ragazzi, ma adulti, a volte stranieri. Alcuni non avevano mai frequentato una scuola secondaria; altri sì, ma molto tempo prima. Io insegno economia e, proprio perché mi relazionavo con adulti che di esperienze alle spalle ne hanno tante, ho fatto in modo che le ore di lezione contenessero anche svago, leggerezza. Nell’affrontare gli argomenti, si partiva spesso dalla lettura di un articolo, da una chiacchierata informale, e svolgevamo tanti esercizi. Un approccio più pratico era fondamentale. In generale, ho cercato di costruire con loro un dialogo, uno scambio emotivo e di esperienze, tentando di trasmettere loro che io ero lì, presente, anche emotivamente, per quanto potesse contare».
Quali ostacoli avete dovuto affrontare in questo percorso?
Roberto: «Ti racconto un aneddoto che spiega bene come funziona il carcere. Dunque, i detenuti avevano la possibilità di scrivere su un giornale. A un certo punto, il progetto è stato bloccato: l’istituto aveva rimosso tutti i dischi e le chiavette dei computer, per qualche motivo avevano deciso di fare pulizia o forse proprio di chiudere definitivamente. Per alcuni mesi, non abbiamo potuto scrivere; poi, per fortuna, il progetto è stato riavviato. Ecco, in carcere si tende a spegnere tutto quello che c’è di positivo. Non esiste l’obiettivo del reinserimento sociale del detenuto all’esterno, si vuole soltanto far scontare la pena. Che poi, quando uno è in carcere, quella è già la pena; invece, si viene costretti a subire anche altro, proprio da parte dell'amministrazione penitenziaria. Questo discorso è valido in generale. Ti permettono di frequentare la scuola, però sempre in maniera limitata: muovono le ore come vogliono. Si fa finché sta bene a loro; poi, quando non sta più bene, si chiude tutto. Ad esempio, se un corso non veniva frequentato da un numero di persone considerato sufficiente, veniva interrotto: non è una cosa positiva, perché chi è interessato ad andare avanti dovrebbe poterlo fare».
Alessandra: «Per me la difficoltà maggiore è stata quella di non farmi assorbire completamente a livello emotivo. Ma va detto che un percorso didattico in carcere è già di per sé intrinsecamente difficile: nel corso delle lezioni, c’è sempre chi a un certo punto deve andare via per lavorare, per i colloqui, per le telefonate. Se poi qualcuno si mette nei guai, viene mandato in isolamento e per un po’ non lo vedi. Alcuni smettevano di frequentare per i più svariati motivi: malessere personale, difficoltà nel seguire le lezioni e altro ancora. Lì, io intervenivo e cercavo di stimolare la partecipazione. A volte, quindi, c’è stata la necessità di rallentare, di tornare indietro, nell’ottica di creare un percorso personalizzato per ciascuno».
Come si potrebbe migliorare, secondo voi, l’istruzione in carcere?
Roberto: «Bisognerebbe provare a rendere partecipi più persone possibile, forse anche mettendo un obbligo di frequenza. Se tu lasci la libertà al detenuto di non frequentare, molto probabilmente non frequenterà mai e la scuola non entrerà a far parte della sua vita, resterà sempre una cosa in disparte. Ci si dovrebbe inventare qualcosa per far partecipare quante più persone, solo così potrebbe migliorare. Di buono, oltre alla scuola, lì dentro non c'è tanto, non c'è niente. Si dovrebbe migliorare la condizione scolastica, renderla più accessibile a tutti, e assicurarsi che l'amministrazione carceraria non metta il bastone tra le ruote».
Alessandra: «Quello che manca è la continuità del percorso didattico, che ha ricadute non solo sugli studenti ma anche sulle insegnanti. Nel mio caso si era creata una connessione speciale con i colleghi, un affiatamento che si è rivelato prezioso e apprezzato anche dagli studenti. L’anno successivo, i miei colleghi e io abbiamo nuovamente fatto richiesta per continuare a lavorare lì, ma le graduatorie ci hanno assegnate ad altre scuole. È stato bruttissimo, uno shock. Per meccanismi che non dipendevano da me, ho dovuto lasciare il bellissimo percorso che eravamo riuscite a creare insieme. Ero arrabbiata: queste persone detenute ricevevano già - per usare l’espressione di un mio studente - schiaffi sul muso ogni giorno, per questioni anche molto più dure e complesse, e hanno dovuto subire anche questo, nonostante l’ottimo lavoro. Una difficoltà che si è aggiunta a vite che ne era già piene. Al netto di tutto, sento che per un po’ di tempo siamo riuscite a portare della luce lì dentro. Ora sto cercando di tornare ad insegnare in carcere».
Racconto di Alessandra
Ci sono i gabbiani ed è una cosa che stupisce. In questa città c’è acqua ma lì, in quella zona, non tanta. In questa città i gabbiani non li senti mai, lì invece sì. Aspettano il cibo buttato fuori, in terra, aspettano il nutrimento di chi getta le cose dalle finestre. E chi le getta, aspetta come loro. Cosa aspetti è una questione personale. E non so se la saprò mai. Il secondo giorno, però, un gabbiano si è incastrato. Lui che può volare dappertutto è rimasto imprigionato proprio nel luogo in cui loro prendono aria. E anche l’aria è, inevitabilmente, bloccata da una rete. Ironia. Brivido e ironia. Io, quel luogo per quel momento specifico chiamato ora d’aria, prima di quel momento, non lo avevo mai visto. L’ho scoperto solo grazie al gabbiano imprigionato. Al gabbiano che non poteva volare perché incastrato da una rete. E nessuno sapeva come toglierlo, come farlo uscire. Lo hanno aiutato, lo stavo per aiutare io. Poi ho pensato che, il secondo giorno nella scuola della prigione, fosse abbastanza fare la prof, senza esagerare. Non volevo essere la prof con il gabbiano sotto braccio, almeno per la prima settimana. Mi sono limitata a essere sicura che lo avessero aiutato a disincastrarsi. E ad essere sicura di non restare, a mia volta, troppo incastrata nella metafora.
Ali, qualche giorno dopo il secondo
Grazie per essere arrivatə fin qui.
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A presto!
Mafalda, Nicolò, Gina ed Elisa
Un ringraziamento speciale per questo numero va ad Alessandra e Roberto.
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