Ciao a tuttə!
Questo è il numero quattro di Fratture, la newsletter che una volta al mese vi racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Oggi parliamo di come funziona la scuola in carcere.
Buona lettura!
Qualche dato
«La scuola è aperta a tutti», questo l’incipit dell’articolo 34 della Costituzione. L’accesso all’istruzione, quindi, dovrebbe essere assicurato all’intera collettività, incluse le persone adulte.
In questa cornice, la possibilità di studiare mentre si sconta la propria pena in carcere non solo dovrebbe essere garantita, ma ancor più incentivata se, come afferma Antigone, l’istruzione «è una delle attività di tipo trattamentale di fondamentale importanza per le persone detenute, come disciplinato dall’art. 19 l. 354/1975 e art. 44 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, poiché rappresenta uno strumento di promozione della personalità in un’ottica di reinserimento sociale». In base all’art. 19 dell’Ordinamento Penitenziario infatti l’amministrazione dell’istituto è tenuta a organizzare corsi della scuola dell’obbligo e di formazione professionale, mentre gli studi tecnici superiori e universitari sono unicamente «agevolati».
Come si struttura quindi il sistema scolastico in carcere?
I percorsi di primo livello (alfabetizzazione e scuola primaria, ovvero certificazioni linguistiche e licenza media) e di secondo livello (istruzione secondaria, quindi diploma) sono affidati ai Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti (CPIA). Nell’anno scolastico 2021-2022, questo è il prospetto dei corsi erogati negli istituti penitenziari.
La popolazione detenuta si distribuisce secondo schemi riconoscibili: la maggior parte è iscritta a corsi di primo livello, frequentati in percentuale più alta dalle persone straniere, specialmente nel caso dei percorsi di alfabetizzazione. L’ammissione all’anno successivo, in generale, è tutt’altro che scontata: nel 2021-2022, solo il 48,8% delle persone detenute iscritte a un corso scolastico è stato promosso.
Inoltre, in alcune città italiane sono nati in forma ufficiale nel 1998 i primi Poli Universitari Penitenziari: oggi sono 43 in tutta Italia e dal 2018 si riuniscono nella Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (Cnupp). Il numero di persone iscritte a questo circuito è però particolarmente basso: nell’anno 2021-2022, solo 1.246 (per lo più di genere maschile). La formazione universitaria in carcere infatti presenta diverse criticità, sintetizzate in questo articolo di Napoli Monitor. Il presidente della Cnupp Franco Prina ha evidenziato, ad esempio, come «[...] molte aree (intere regioni) e molti istituti penitenziari non offrono, almeno al momento, questa opportunità. Non essendo questo né un impegno normativamente regolato sul versante delle Università, né un vero e proprio diritto esigibile in maniera incondizionata».
Un lavoro precario
Nel 2016, Stefania Giannini e Andrea Orlando, allora rispettivamente Ministra dell’Istruzione e Ministro della Giustizia, hanno sottoscritto un protocollo di intesa per valorizzare la scuola negli istituti penitenziari. Rinnovato nel febbraio del 2024, questo accordo annovera tra le premesse l’impegno, in capo al Ministero dell’Istruzione e (oggi) del Merito, di individuare «nella formazione del personale la leva strategica per promuovere la qualificazione del servizio scolastico [...]».
Anna Zanino, di cui abbiamo raccolto la testimonianza, insegna inglese nella Casa Circondariale di Ivrea. La professoressa racconta:
«In teoria, secondo la normativa, dovrebbe essere prevista una formazione, ma nella pratica questo non avviene. Ci sono sì dei vademecum, ma di fatto ci formiamo direttamente sul campo. Nel mio caso sono oltre vent’anni che insegno in carcere, ho iniziato nel 2000. Una cosa molto importante che si impara quando si entra è che bisogna distinguere subito il proprio ruolo di insegnante da quello dello psicologo, dell’amico o del confidente. Allo stesso tempo è necessario coltivare il dialogo educativo: il rapporto freddo, del tipo “io insegno, tu stai lì e non ti avvicinare”, non può funzionare; i detenuti hanno bisogno di essere trattati come studenti, come persone».
Marco Rovaris, che ha insegnato in alcuni istituti penitenziari della Lombardia, ha scritto su La Balena Bianca: «Bisogna abituarsi in fretta al fatto che non tutto funziona come fuori: codici diversi, convenzioni di socialità diverse, innumerevoli labirinti di senso, alcuni a fondo chiuso». Prima di tutto, però, bisogna familiarizzare con le condizioni dell’insegnamento tra le mura di un carcere. Edoardo Albinati, scrittore e per più di trent’anni insegnante nell’istituto romano di Rebibbia, ha raccontato per Treccani Scuola in che cosa consistono le gravi carenze dell’istruzione in carcere: le aule sono spesso «celle male illuminante e con un'acustica pessima, da sgolarsi, in mezzo ai rumori della vita reclusa (urla, sbattimento di cancelli, megafoni ecc.)”; in più, spiega Albinati, «l’acquisto di libri e materiali didattici è sporadico».
Sempre Zanino:
«Nella mia esperienza, gli ostacoli maggiori dell’insegnamento in carcere sono, da un lato, la difficoltà dei detenuti a concentrarsi e a rimanere attenti; dall’altro, la discontinuità della lezione: qualcuno viene chiamato per incontrare il proprio avvocato, alcuni hanno il colloquio con i familiari o una telefonata, altri arrivano tardi perché magari non hanno sentito quando sono stati chiamati per andare in classe».
Tuttavia, in quanto caso limite, l’istruzione in carcere può rappresentare un’opportunità per chi insegna, offrendo nuovi spunti didattici validi anche per l’esterno. Dice Albinati in un’intervista per l’associazione Antigone: «Qui il tempo è davvero prezioso, e irripetibile. Lo studente ce l’hai davanti, lo devi beccare quel giorno lì. Devi essere molto, ma molto succoso. Questo riguarda sia il contenuto che il metodo. Se c’è una sollecitazione che può venire dall’insegnamento in carcere, è che proprio la precarietà del percorso scolastico fa sì che si debba investire tutto giorno per giorno. “Del doman non v’è certezza”».
Dello stesso avviso è Zanino:
«Bisogna far sì che le lezioni non siano noiose. L’insegnante deve mettersi molto in discussione e lavorare su quello che può essere realmente utile e interessante per i detenuti. Altrimenti le classi si svuoterebbero: loro non sono obbligati a venire, quindi se non ritengono valido quello che apprendono a scuola possono anche non tornarci più».
Tuttavia, l’impegno e la buona volontà di chi insegna possono costituire anche un terreno scivoloso e un dilemma etico, quello che Albinati chiama “il rischio dell’abbellimento”. Scrive su Treccani Scuola:
«Ecco il paradosso: ogni volta che si organizza qualcosa per rendere meno squallida e inutile la vita delle persone recluse, in qualche misura si contribuisce a lasciare inevasi i problemi strutturali, quasi mascherandoli con qualche risultato di cui immancabilmente l'istituzione si farà bella, per dimostrare che ‘va tutto bene' . Abbiamo le scuole, il cineforum, il concorso di poesia, che volete di più? Talvolta gli insegnanti hanno la sensazione di stare dando una mano di vernice su un muro marcio e screpolato».
Ma insegnare, dentro come fuori dal carcere, è un processo che si basa sullo scambio, sulla trasmissione di conoscenze tra due persone in dialogo. Per questo motivo, è fondamentale guardare a entrambe le parti e chiedersi: qual è l’esperienza di chi prova a intraprendere un percorso di studi in carcere come studente? Proveremo a rispondere a questo interrogativo nel numero speciale di approfondimento a fine mese.
Tra i banchi di un Ipm
Negli Istituti Penali Minorili (Ipm), le persone detenute in età scolare partecipano inevitabilmente ai percorsi formativi, mentre chi ha più di 16 anni può decidere se proseguire gli studi o prendere parte a corsi professionalizzanti e attività lavorative. Antigone, che si occupa di monitorare le condizioni di detenzione, ha rilevato: «In quasi tutti gli Ipm visitati sono presenti corsi di scuola primaria e di alfabetizzazione, frequentati principalmente da ragazzi stranieri, con poca o nessuna conoscenza della lingua italiana. Nella maggior parte degli istituti sono attivi corsi di scuola secondaria di primo e/o secondo livello, a volte accorpati in un’unica pluriclasse». Inoltre, i corsi sono tenuti in pianta stabile solamente negli Ipm di maggiori dimensioni, altrimenti vengono attivati di volta in volta secondo le necessità delle persone ristrette.
Anche l’istruzione in Ipm non è immune da criticità. Innanzitutto, il frequentissimo turn-over delle persone ristrette. Chi è minore, infatti, sconta generalmente pene brevi: non rimanendo in Ipm per lunghi periodi, difficilmente può prendere parte all’intero anno scolastico e ottenere quindi i crediti formativi o il diploma. Inoltre, il ricambio costante non permette di creare gruppi classe stabili e di dare dunque continuità alle attività scolastiche. Tuttavia, le persone di età compresa tra i 18 e i 24 anni, scontano tipicamente condanne più lunghe, intraprendendo di conseguenza percorsi scolastici più duraturi.
Sempre secondo le indagini di Antigone, a giocare un ruolo fondamentale nel percorso formativo in Ipm è il sostegno - sia emotivo che pratico - da parte della famiglia della persona ristretta. Relazioni familiari assenti o complesse possono, invece, avere conseguenze negative sul rendimento scolastico.
Inoltre, lə ragazzə ristrettə hanno spesso avuto esperienze scolastiche negative prima della detenzione, con ricadute sulla loro idea di scuola, vista unicamente come luogo punitivo. Assume quindi ancora maggiore centralità il ruolo dellə insegnanti: i questionari di Antigone hanno messo in evidenza come una buona relazione studente-docente influisca positivamente su partecipazione e interesse. Un rapporto conflittuale o di sfiducia può, al contrario, allontanare e demotivare le persone ristrette.
Possibilità ridotte
Secondo il primo rapporto di Antigone sulle donne detenute in Italia uscito a marzo 2023, le persone ristrette nelle 4 carceri e 52 sezioni femminili rappresentano solo il 4% della popolazione reclusa. Malgrado il numero esiguo, le condizioni detentive sono però ancora più allarmanti rispetto a quelle della componente maschile: a) il tasso di affollamento pari al 112,3%, laddove quello generale è del 109,2%; b) il tasso più elevato di suicidi e di episodi di autolesionismo. I problemi strutturali che caratterizzano l’attuale sistema penitenziario così non risultano che aggravati nelle sezioni e carceri femminili.
La percentuale bassa sembrerebbe ostacolare, di fatto, la realizzazione di interventi atti a migliorare le condizioni di detenzione e ciò si riflette anche sul potenziale accesso alle attività trattamentali, tra cui i percorsi scolastici, governati da profonde disparità. Infatti, nel report, si sottolinea come, nei gradi inferiori di istruzione, il numero di donne iscritte e promosse sia più alto di quello maschile, mentre nei gradi più alti la situazione si ribalti. Tradotto, le donne accedono meno ai corsi di secondo livello e a quelli universitari. Inoltre, le donne tipicamente scontano pene più brevi, con ricadute sulle possibilità di partecipare in modo continuativo ai percorsi scolastici.
Nel report di Antigone, Franca Garreffa e Daniela Turco riflettono sulla discriminazione di genere nei percorsi universitari, osservando come «i numeri molto contenuti delle presenze femminili in carcere rendono evidentemente più complicata a livello organizzativo la gestione di percorsi di studio delle donne, anche a causa della carenza di spazi da destinare a gruppi esigui di detenute, precludendo però, a quante siano interessate, l’accesso non solo a percorsi di formazione universitaria, ma anche di sperare se non in altre vite almeno in altre vie possibili». Ѐ necessario quindi intervenire affinché tale disparità venga appianata, così che anche le donne possano avere la possibilità di accedere ai percorsi di istruzione superiore, perché, come scritto da Giulia Fabini, «numeri bassi non possono significare bassa attenzione».
Scarcerare la scuola
L’istruzione rappresenta un’opportunità per la persona ristretta, in quanto esperienza che permette sia di ridurre l’isolamento tipico della detenzione sia di acquisire conoscenze e competenze spendibili fuori dal carcere. Tuttavia, l’istruzione in carcere presenta gravi criticità e problemi, poiché risente di una visione della detenzione punitiva piuttosto che riabilitativa.
Secondo Luca Decembrotto, Luca Ferrari e Stefano D’Ambrosio studiare in carcere può favorire il riscatto della persona, a patto che l’obiettivo ultimo risieda nell’emancipazione del soggetto. È necessario, quindi, che le attività scolastiche mirino a stimolare consapevolezza e nuove prospettive, allontanandosi da «compromessi con le posizioni correttivo-punitive di cui è ancora intrisa l’istituzione detentiva». Prima ancora della risocializzazione, la formazione dovrebbe favorire l’elaborazione di «strategie personali», utili a comprendere la propria condizione e il contesto in cui si agisce, a favorire processi relazionali e di confronto.
Inoltre, Caterina Benelli parla della necessità di «scarcerare» la scuola, promuovendo percorsi che vadano oltre il semplice binomio insegnamento-apprendimento, che siano in relazione con la comunità locale e occasioni di scambio e crescita personale. La scuola, attraverso l’alfabetizzazione, può inoltre assumere un ruolo importante per le persone straniere, permettendo loro di relazionarsi con figure quali avvocatə, amministrazione penitenziaria e persone care. Sempre Benelli evidenzia come la scuola in carcere debba e possa avviare «movimenti di incontro, di possibilità di un riscatto personale e sociale» finalizzati a rafforzare l’autonomia laddove la pena «instaura meccanismi regressivi, infantilizzanti e reattivi».
Percorsi formativi volti a favorire l’autonomia di pensiero della persona detenuta sono, però, in controtendenza con gli attuali intenti punitivi della detenzione. Lo dimostra il caso di Mario Crisci, ora al vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo. Crisci, nell’agosto del 2020, aveva chiesto al Tribunale di Sorveglianza di Bologna di poter scontare la pena nella forma di detenzione domiciliare; avendo problemi di salute, rimanere in carcere lo avrebbe esposto, infatti, a una maggior probabilità di contrarre il Covid-19. Il Tribunale, nel rigettare l’istanza, ha fatto riferimento anche al grado di istruzione di Crisci: i giudici hanno infatti ritenuto che le lauree conseguite potessero «aver affinato le sue indiscusse capacità e gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico, che possono essere svolte anche se ristretto in detenzione domiciliare». Il percorso scolastico di Crisci è stato quindi interpretato come un pericolo, comportando una violazione del suo diritto alla salute.
Guardando al contesto più in generale, emerge chiaramente come l’istruzione sia declinata in ambito penitenziario solo e unicamente come elemento trattamentale, e non come «elemento strutturante la persona ed espressione di un diretto diritto». Anna Maratea scrive: «Proporre l’istruzione come obiettivo di rieducazione “lo rende uno degli elementi in base al quale la magistratura di sorveglianza dovrà decidere sulla quantità di libertà da concedere alla persona”. Dal punto di vista pedagogico, però, “nessuna esperienza educativa si risolve nel soddisfare i bisogni e nell’imporre modelli e regole di comportamento; piuttosto essa deve preoccuparsi di affinare la capacità soggettiva di conferire senso e valore al mondo, di sollecitare la consapevolezza del proprio specifico e ineliminabile contributo nella costruzione della realtà e di sviluppare la capacità di negoziare con l’altro le interpretazioni e i significati attribuiti al mondo”; in altri termini, il rischio sarebbe quello di appiattire la libera e consapevole autodeterminazione del singolo, anziché valorizzarla, portando il detenuto ad adattarsi, in modo passivo, alle istanze istituzionali».
Qualche consiglio
Carlotta Cossutta ed Elisa Virgili, in questo articolo per Edizioni Minoritarie, riflettono sull’insegnamento in carcere da una prospettiva di genere e abolizionista.
Il libro “Maggio Selvaggio”, in cui Edoardo Albinati, attraverso la forma del diario personale, racconta un anno di insegnamento nel carcere di Rebibbia a Roma.
Il romanzo di Valeria Parrella “Almarina”, in cui l’autrice, prendendo spunto da vicende personali, narra dell’incontro nel carcere minorile di Nisida tra un’insegnante di matematica e una ragazza sedicenne romena.
Il libro “L’Università di Rebibbia” di Goliarda Sapienza, in cui l’autrice racconta la sua detenzione a Rebibbia.
Il racconto di Marco Rovaris su La Balena Bianca, che abbiamo già citato nel numero, ci restituisce uno spaccato sincero di cosa significhi insegnare in carcere.
La conversazione tra Sofia Antonelli di Antigone e Mario Tagliani, che da oltre 35 anni insegna al Ferrante Aporti di Torino.
Su Internazionale una rassegna di diversi prodotti culturali, come romanzi e libri, che raccontano la vita in carcere, con un focus su Rebibbia.
Free Palestine
Il prigioniero politico palestinese Walid Daqqa, dopo aver trascorso 38 anni in carcere in Israele, è morto di cancro a 62 anni allo Shamir Medical Center, a sud-est di Tel Aviv. Le autorità israeliane non gli avevano concesso il rilascio e sono accusate di avergli negato cure adeguate.
Nelle carceri israeliane ə prigionierə palestinesi sono sottopostə a continue torture, vessazioni e umiliazioni. Un articolo di Monjed Jadou per Al Jazeera.
Un aggiornamento sulla vicenda di Anan Yaeesh, il 37enne palestinese arrestato lo scorso 29 gennaio, ora trattenuto presso il carcere di Terni, e per cui Israele aveva chiesto l’estradizione. Qui il video di Ansa.
Grazie per essere arrivatə fin qui!
Se vi va di scriverci per feedback, commenti e segnalazioni in risposta a questa mail o tramite i nostri canali, a noi fa molto piacere.
A presto!
Un ringraziamento speciale per questo numero va ad Anna Zanino.
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