Ciao a tuttə!
Questo è il numero cinque di Fratture, la newsletter che vi racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Oggi tratteremo dell’assunzione di psicofarmaci nelle carceri italiane.
Prima di iniziare, alcune premesse. Fatto salvo il nostro posizionamento a favore dell’autodeterminazione nel consumo di qualsiasi sostanza, il discorso intorno agli psicofarmaci in carcere presenta almeno due specificità di cui non si può non tenere conto: da una parte, le persone ristrette richiedono gli psicofarmaci per riuscire ad affrontare la quotidianità afflittiva del carcere; dall’altra, il personale vede la terapia farmacologica come un mezzo a propria disposizione per sedare e mantenere un maggiore controllo su chi è detenutə. Non crediamo sia dunque possibile raccontare l’assunzione degli psicofarmaci senza considerare la violenza del sistema penitenziario.
La questione è complessa, dire tutto impossibile. Vi proporremo, però, alcuni spunti per poter riflettere sul tema.
Buona lettura!
Un confine labile
Oltre due milioni di euro per acquistare psicofarmaci e una spesa in antipsicotici - prescrivibili per disturbi inquadrati come bipolarismo e schizofrenia - cinque volte maggiore rispetto all’esterno. Questa era la situazione nel 2022 di 15 tra i 190 istituti penitenziari, restituita lo scorso ottobre nell’inchiesta di Luca Rondi per Altreconomia. Ma i dati relativi al 2023 non sono meno allarmanti, come rilevato dall’osservatorio dell’associazione Antigone sulla base di 99 visite effettuate nel corso dell’anno: quasi il 20% delle persone detenute assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, con picchi che superano il 70% a Trento e Biella; mediamente, poi, il 40% usa sedativi o ipnotici - a Catanzaro e Grosseto la cifra si attesta persino sopra il 90%.
Perché una fetta così significativa della popolazione ristretta consuma una qualche forma di psicofarmaco? Per alcunə, tra cui i sindacati di Polizia Penitenziaria, la ragione principale risiede nello smantellamento, reso effettivo nel 2017, degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG): se in precedenza erano questi gli istituti a doversi occupare di molte delle persone con diagnosi psichiatriche, oggi questa responsabilità ricade principalmente sul carcere; le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS), eredi degli OPG, hanno infatti una capienza limitata e sono previste solo per coloro che hanno commesso un reato, ma sono incapaci di intendere e di volere.
Addebitando le colpe unicamente alla chiusura degli OPG, si corre però il rischio di assolvere l’istituzione penitenziaria: «Il carcere - scrive Michele Miravalle nell’ultimo report di Antigone - è tossico, nuoce alla salute, soprattutto quella mentale. Occorre partire dai qui per capire davvero qualcosa sui rapporti tra detenzione e salute mentale».
Uno dei fattori all’origine della diffusione degli psicofarmaci riguarda il desiderio, tra chi è detenutə, di alleviare la propria sofferenza nel contesto intramurario. Dopo aver contribuito al numero #2 di Fratture, “Grammi”, il rapper Armando Sciotto, in arte Chicoria, torna su questa newsletter per offrirci un altro tassello del suo racconto.
«Al braccio dove stavo io a Regina Coeli c’era un detenuto che si faceva portare dalla famiglia l'hashish. Lui poi scambiava questo hashish con gli psicofarmaci: questo per farvi capire quanto sia importante la droga fornita dal DAP. Ma voi vi rendete conto cosa vuol dire stare chiusi 20 ore su 24 in una cella? La gente lo dovrà passare il tempo in qualche modo, facendo abusi nei confronti di altri detenuti o drogandosi con gli psicofarmaci dello Stato. Voi li chiamate “terapia”, per chi sta in carcere sono solo “sballo”: le pasticche lilly ti fanno cappottare, con il lentomil [meglio conosciuto come entumin, ndr] ti senti fatto di ketamina, se pippi il subutex in polvere hai l’effetto dell’eroina. Gli psicofarmaci sono la colonna vertebrale dello sballo dentro il carcere».
Un’ulteriore spiegazione consiste invece nella prassi, da parte dell’amministrazione penitenziaria, di ricorrere agli psicofarmaci per mantenere l’ordine nelle sezioni, specialmente laddove le condizioni di vita sono ancora più degradanti e insopportabili. Questo approccio deriva sia dalla mancanza di un discorso articolato sul benessere psico-fisico delle persone detenute che dall'esigenza di rispondere rapidamente a tutto ciò che viene percepito come emergenziale, senza indagarne le cause.
Ne dà conto A., uno psichiatra che ha lavorato in alcuni istituti penitenziari e di cui abbiamo raccolto la testimonianza.
«Una persona detenuta può accedere agli psicofarmaci se ha presentato una “domandina” alla direzione dell'istituto, oppure se tramite un medico è stato convocato per una visita psichiatrica o, ancora, se un agente della Polizia Penitenziaria lo ha segnalato allo psichiatra. In carcere si verifica una patologizzazione dei disagi che derivano principalmente dal contesto carcerario, come l’isolamento coatto e la mancanza di relazioni: se una persona ristretta mostra una qualche forma di malessere, si interviene con lo psicofarmaco per sedarla, senza prevedere alcun accompagnamento terapeutico. Ci sono poi alcune persone che avrebbero bisogno di un’assistenza psichiatrica perché hanno reali disagi psichici (il 12% della popolazione ristretta ha una diagnosi psichiatrica grave, ndr), ma spesso non vengono seguite adeguatamente».
Complice di questa situazione, la carenza di sostegno psicologico e psichiatrico negli istituti. In media, le ore di servizio settimanali di psichiatrə (9) e psicologə (20) ogni 100 detenutə, rilevate dall’osservatorio di Antigone, sono infatti insufficienti per rispondere ai bisogni di chi sconta la pena in carcere: si tratta di poco più di 5 minuti settimanali a testa per un colloquio con lə psichiatra, 12 minuti con lə psicologə. Esistono poi significative differenze nell’accesso a questi servizi in base all’istituto di riferimento: nella casa circondariale di Perugia, ad esempio, il numero di ore di assistenza psichiatrica ogni 100 detenutə è pari a 60,9 (circa 37 minuti a testa), mentre nel caso di alcuni istituti è 0; una simile discrepanza si registra inoltre nel numero di ore settimanali di sostegno psicologico ogni 100 detenutə, che a Pordenone è 206,9 (circa 2 ore ciascunə), mentre a Tempio Pausania è 0.
Psicofarmaci nelle carceri minorili
L’inchiesta di Luca Rondi per Altreconomia ha riguardato anche 6 tra i 17 Istituti Penali Minorili (IPM) presenti in Italia. I dati che Rondi ha ottenuto mostrano un aumento vertiginoso della spesa annuale pro-capite in psicofarmaci tra il 2021 e il 2022: all’Ipm Ferrante-Aporti di Torino, ad esempio, da 497 euro a persona nel 2021 si è arrivatə a 1.792 nel 2022. L’aumento riguarda in particolar modo le terapie antipsicotiche: sempre tra il 2021 e il 2022, la spesa media a persona, in questo caso, è aumentata del 30%. Nel carcere per adultə, la crescita è stata, invece, dell’1%.
Michele Miravalle, coordinatore dell’osservatorio di Antigone, sottolinea:
«Anche ammessa l’adeguatezza prescrittiva, questi dati [quelli sulla spesa annuale in psicofarmaci, ndr] confermano la necessità di fare un passo in più. Al mio ultimo ingresso in un Ipm alle 11 di mattina dormivano ancora tutti. Non è accettabile: visti i numeri [di persone detenute in Ipm, ndr], così ridotti, il definitivo superamento di queste strutture non dovrebbe essere un tabù».
Se è vero che molte persone entrano in Ipm con esperienze pregresse di dipendenza da sostanze a basso costo - tra cui anche psicofarmaci -, il carcere continua a dimostrarsi completamente inadeguato nell’accompagnare lə ragazzə in percorsi di cura. Nei contesti di detenzione, la dipendenza da sostanze non viene presa in carico in tutta la sua complessità; al contrario, secondo il rapporto di Antigone del 2023, viene sostituita da quella legata a «grandi e neutralizzanti dosi di farmaci». A questo proposito, può capitare che a proporre lo psicofarmaco sia proprio il personale penitenziario, che identifica in questo tipo di terapia la soluzione al malessere emotivo di molte delle persone private della libertà.
In più, la copertura oraria settimanale da parte del personale psichiatrico in alcuni Ipm è limitata. Prendendo in considerazione il caso del Ferrante-Aporti di Torino, lə neuropsichiatra è disponibile unicamente un’ora e mezzo alla settimana, mentre lə psichiatra è presente a chiamata. Questo risulta ancora più grave dal momento che riguardo a questo istituto sono state segnalate da Antigone criticità particolari, come la dipendenza da crack inalato e da rivotril (un farmaco antiepilettico).
Le visite psichiatriche non possono costituire, però, l’unico mezzo per trattare le dipendenze, dare strumenti di consapevolezza e creare un rapporto diverso con le sostanze: il carcere è un luogo violento, che colpisce le persone su un piano sia fisico che psicologico, e qualsiasi servizio al suo interno non può rappresentare la soluzione finale. Il problema, e quindi la risposta, devono guardare a un livello più ampio, sociale, di accesso ai servizi, di spazi di confronto anche per lə più giovani, di accoglienza e inclusione delle persone migranti. Gli interventi, quindi, dovrebbero rivolgersi all’origine dei problemi, non alle loro manifestazioni, frutto spesso di percorsi di marginalizzazione e vulnerabilità sociale.
Infine, la questione dell’assunzione di farmaci in Ipm è strettamente legata alla detenzione di persone con background migratorio, in particolar modo di minori stranierə non accompagnatə. Quest’ultimə spesso sviluppano rapporti di dipendenza con le sostanze nel momento dell’arrivo in Italia, quando - privə di una rete sociale e di servizi di accoglienza adeguati - si ritrovano a vivere in strada. Incarceratə tipicamente per reati di lieve entità, le persone straniere, in particolare minori non accompagnatə, subiscono particolari discriminazioni mentre scontano la pena detentiva. Come rilevato da Antigone, dal momento che sono ragazzə consideratə «più difficili da trattare […], con disturbi comportamentali, problemi di dipendenze da sostanze, psicofarmaci e/o alcool, solitudine, violenze subite durante i percorsi migratori, [...] vengono trasferiti di continuo da IPM ad IPM, rendendo impossibile una loro adeguata presa in carico. E al compimento del diciottesimo anno d’età alcuni direttori se ne liberano definitivamente mandandoli nel sistema degli adulti [nonostante in Ipm siano detenute persone fino ai 24 anni, ndr]».
A volte il carcere genera la dipendenza da sostanze, più spesso semplicemente la reitera.
Sezioni e carceri femminili
«Io sono qui da un mese e ho già capito come funziona. Le tossiche o quelle con disagi psichici vengono messe qui! Ma questa non è una struttura idonea, mancano le persone informate. Qui è tutto a caso!»
- Persona privata della libertà personale, sezione femminile del carcere Lorusso e Cutugno, 2023
Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, la percentuale di persone detenute nelle carceri e sezioni femminili si attesta intorno al 4,3% della popolazione penitenziaria, un dato che negli ultimi decenni è rimasto più o meno invariato. Come emerso anche nel numero #3 “Vernice”, dedicato all’istruzione in carcere, questa sotto-rappresentazione spesso e volentieri non coincide con una maggiore presa in carico da parte dell’amministrazione e delle istituzioni; al contrario, comporta un ulteriore abbandono e, di conseguenza, un’amplificazione del senso di isolamento e solitudine.
I dati che seguono ci parlano di una specifica fragilità, che può essere in parte anche pregressa, ma che è indubbiamente da legare alle condizioni in cui versano le carceri e sezioni femminili.
Inoltre, il 63,8% delle donne fa uso di psicofarmaci, tra gli uomini, invece, la percentuale si aggira attorno al 41,6%. Sorge quindi una domanda: come mai nelle sezioni e carceri femminili il tasso di assunzione di psicofarmaci è più alto che in quelle maschili?
Ad oggi non esistono molti studi al riguardo. Si segnalano, però, alcuni lavori interessanti, come le analisi di Grazia Zuffa e Giulia Fabini, inserite nel primo rapporto di Antigone sulla detenzione femminile del 2023, e il libro scritto nel 2020 da Zuffa e Susanna Ronconi, “La prigione delle donne. Idee e pratiche per i diritti”.
Questi contributi, oltre a riflettere sul tema degli psicofarmaci, evidenziano come in carcere trovino spazio dinamiche di stereotipizzazione e stigmatizzazione del genere femminile. Zuffa e Ronconi osservano, ad esempio, l’esistenza di una visione della donna a «metà fra l’adulto e il minore»: una «bambina cattiva», scrivono le due autrici, «soggetta a processi più nitidi di depersonalizzazione e disempowerment». Inoltre, come scrive Zuffa nel rapporto di Antigone, essendo ancora «la maggior depositaria dei vincoli e delle relazioni familiari e affettive», la donna vede amplificata la propria sofferenza sia per l’allontanamento dai propri legami, nello specifico dallə figliə, sia per il senso di colpa indotto di essere una «cattiva madre».
Un altro punto è il processo di patologizzazione del comportamento deviante femminile: tutto ciò che si discosta dalla figura della donna tradizionale viene associato a un disturbo mentale, rafforzando quello che Tamar Pitch definisce «orientamento complessivo terapizzante».
Non da ultimo, la suddivisione in base al genere delle attività come lavoro e scuola comporta per le sezioni e carceri femminili la privazione di alcune possibilità: non sempre i numeri e gli spazi sono infatti ritenuti sufficienti per garantirne lo svolgimento.
Stigmatizzare, patologizzare ed escludere: queste sembrano essere le direttrici perseguite dal sistema penitenziario nei confronti delle detenute, che hanno maggiori probabilità di sviluppare sindromi depressive e stati di profondo malessere. Inoltre, appare chiara la volontà di trasformare dei problemi strutturali e strettamente connessi alla privazione della libertà personale in disordini di natura psichiatrica, con il risultato di delegittimare l’autodeterminazione del soggetto femminile.
Il carcere, in questo caso come in molti altri, si insedia come tappa di un lungo processo di discriminazione di genere che nasce molto tempo prima, fuori dal carcere, ma che qui trova terreno fertile per radicarsi e riprodursi. Poi, una volta all’esterno, lo stigma permane, alimentato dalla delusione delle performance di genere, ovvero dalla distanza tra ciò che ci si aspetta da una persona socializzata come donna e il modo in cui questa si autodetermina.
Non solo il carcere, dunque, partecipa a questi processi: il mondo fuori è più coinvolto di quanto sembri.
Qualche consiglio
Un ex detenuto racconta l'abuso degli psicofarmaci nelle carceri italiane, su Vice.
“Psicofarmaci all’Ipm Beccaria di Milano: l’altra faccia di abusi e torture”, inchiesta di Luca Rondi.
“Il carcere invisibile”, del sociologo Luca Sterchele. Un’etnografia condotta in tre istituti penitenziari del Nord Italia, per indagare - da una prospettiva critica - medicina e psichiatria nell’arcipelago carcerario.
Un’altra etnografia, “Resti tra noi”. Uno studio dell’antropologo Luigigiovanni Quarta sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), oggi chiusi.
“Recluse”, di Susanna Ronconi e Grazia Zuffa. Un’indagine sulla differenza di genere in carcere, a partire dalle sezioni femminili delle carceri di Sollicciano, Empoli e Pisa.
Free Palestine
Un reportage della CNN: le violenze esercitate dalle IDF (Israel Defense Forces) sulle persone palestinesi detenute a Sde Teiman, in Israele.
Sempre sul centro detentivo di Sde Teiman, un’intervista su il manifesto a Oneg Ben Dror, attivista ebrea della ong Physicians for human rights ed esperta della condizione dei prigionieri politici nelle carceri di Tel Aviv.
La notizia della morte - dopo pestaggi e torture - del medico Adnan Bursh, capo del dipartimento di ortopedia dell’ospedale Shifa (a Gaza), avvenuta nel carcere israeliano di Ofer il 19 aprile.
Il racconto su Rainews di Khaled El Qaisi, italo-palestinese, arrestato lo scorso agosto dalle autorità israeliane e detenuto senza che gli fosse contestato nessun reato.
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Mafalda, Nicolò, Gina ed Elisa
Un ringraziamento speciale per questo numero va ad A. e ad Armando Sciotto.