#15: Abolizionismo queer
La seconda parte dell'intervista al sociologo e attivista trans Carmine Ferrara.

Ciao a tuttә!
Questo è il #15 di Fratture, la newsletter che una volta al mese vi racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Oggi, a conclusione dei nostri approfondimenti sulla condizione detentiva delle persone trans, pubblichiamo la seconda parte dell’intervista al sociologo e attivista trans Carmine Ferrara. La puntata precedente, “Il carcere e il mio corpo: due prigioni”, si legge nel #14.
Il dialogo avuto con Carmine è stato interessante per più motivi: in primis, abbiamo approfondito la sua ricerca ed evidenziato l’urgenza di “visibilizzare” i bisogni di una parte di popolazione detenuta che raramente trova spazio nel dibattito mainstream; poi, ci siamo ritrovatә a riflettere sulla necessità di immaginare un mondo senza carcere e senza giustizia punitiva.
Una prospettiva che anche noi, come Fratture, condividiamo, ma che non può che generare molti interrogativi: cosa fare finché le carceri esistono? Cosa significa praticare l’abolizionismo? Come decostruire la rassicurante dicotomia vittima/carnefice? Come tradurre una prospettiva che ci parla del futuro e agita l’immaginazione nel tempo presente? Quali le alternative per una gestione del danno e del conflitto che non producano altrettanto danno e violenza?
A queste e altre domande, pensiamo non ci sia una risposta univoca e certa, ma ci piacerebbe, prossimamente, provare a immaginarne alcune: lo scambio avuto con Carmine rappresenta un primo passo in questa direzione.
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È tutto, buona lettura!
Nel tuo testo parli di abolizionismo queer: come ti sei avvicinato a questa prospettiva?
Io mi sono avvicinato all'abolizionismo relativamente tardi e provando dentro di me dei sentimenti contrastanti. Non è proprio semplice parlare da questa prospettiva, soprattutto da persona survivor (*) di abusi sessuali che ha denunciato; il mio abuser è in carcere. Io mi sono creato una mia comunità di cura, ma attorno alla persona che ha commesso gli abusi su di me non c'era niente, c'era il vuoto più totale. In più, io stesso sono stato una persona abusante per anni nei confronti di una mia ex: io le ho chiesto di denunciarmi, perché se mi avesse denunciato forse qualche servizio mi avrebbe aiutato. Da survivor, un centro antiviolenza mi ha subito preso in carico perché risulto femmina all’anagrafe: ho avuto accesso a diverse opportunità, tra cui un’avvocata straordinaria, tant’è che la persona è stata riconosciuta colpevole; per me la cosa più importante non era che lui finisse in carcere, bensì essere creduto.
(*) Una persona si definisce survivor quando ha attraversato un vissuto di violenza fisica o psicologica.
Quando mi sono attivato per ricevere un supporto in quanto abuser, invece, avere accesso ai servizi è stato difficilissimo. Io sono un’attivista femminista e non riuscivo a trovare chi mi aiutasse a uscire dalla violenza. Quando mi sono rivolto allo sportello per cosiddetti “uomini maltrattanti”, l’Asl di Napoli non ha accettato di seguirmi perché ero considerato una femmina e quindi, secondo loro, non potevo essere violento. La seconda volta, in uno sportello che copriva le province di Salerno e Avellino, mi hanno detto: “Noi ti aiutiamo, però devi sapere una cosa: sei la prima persona non maschio cis (**) che si rivolge a noi e la prima persona che viene di sua spontanea volontà. Qui le persone sono inviate dagli assistenti sociali, i tribunali, le forze dell’ordine”. Ma una persona che arriva perché obbligata, quanto sarà realmente predisposta a lavorare su di sé in un’ottica trasformativa? Alla fine, la psicoterapeuta che mi seguiva mi ha spiegato che il mio è stato un percorso di psico-educazione e che in pochi mesi avevo raggiunto progressi che molti uomini ottengono solo dopo anni. Io volevo davvero uscire dalla violenza e avevo il vantaggio di non portare lo stesso stigma di un maschio cis.
(**) Una persona è cis quando la sua identità di genere corrisponde al sesso che le è stato assegnato alla nascita.
Parlare di abolizionismo in via teorica secondo me è bello, bellissimo, però bisogna riflettere anche su quanto siano intrisi di stigma anche i nostri stessi contesti queer e femministi. Ad esempio, io non conosco nessun'altra persona che si sia esposta come persona abusante. Un altro aspetto riguarda il linguaggio: spesso anche nelle comunità che chiamiamo sicure, safer, si è spesso escludenti, si usano termini inaccessibili. Anche già in quest’intervista, ad esempio. Io mi ritengo un fortunato e privilegiato perché la mia scuola sono state le case popolari e quindi riesco a parlare i vari linguaggi: “l’accademichese”, ma anche quello delle palazzine.
[In questa risposta, si fa riferimento a vari vissuti di violenza: chi preferisce, può passare alla domanda successiva]
Che fare, allora, per superare il carcere?
In questa prospettiva, il lavoro da fare nel breve termine è quello di iniziare a parlare di abusi, violenze, reati, i più disparati, riconoscendo che queste possibilità ci riguardano tutti e scardinando questa idea del noi “sani” e degli altri “malati”. Io vengo da una famiglia che è costellata da persone che in qualche modo hanno commesso reati, dai più piccoli ai più grandi, fino all’omicidio. Non è facile per me. In carcere c'era una persona che ha ucciso un mio amico. Questa riflessione è anche molto biografica: spero possa essere utile portarla proprio così, cruda, politicizzandola. Anche mio padre è stato una persona violenta. In un'ottica di giustizia trasformativa, la prima cosa è che la persona che subisce un danno sia messa al sicuro e attorno a lei siano create delle opportunità di ripresa. L’allontanamento spesso è vitale. Io stesso mi sono allontanato da mio padre e mi sono allontanato anche da quella persona che mi ha violentato quando avevo nove anni. Detto questo, per quanto riguarda mio padre, mi sono fatto carico io della situazione, vivendola come una mia responsabilità. Mi sono detto: “Voglio che mio padre esca dalla violenza”, pur essendo stato io stesso una delle persone che l’ha subita. Così l’ho preso, gli ho fatto coming out sul fatto che anch’io ero stato violento, e l’ho portato dallo psichiatra, al centro di salute mentale, dicendogli: “Devi lavorare su te stesso”. Tutto ciò per dire che la questione di classe è centrale in questo discorso. In certi contesti, mio padre non avrebbe mai potuto permettersi un aiuto. In questo caso mi sono attivato io, ma in generale non dovrebbe essere così, non può dipendere tutto solo da chi ha vissuto la violenza. Servono servizi adeguati, comunità di supporto, istituzioni in grado di prendersi carico di queste situazioni in modo efficace e strutturato.
Dovrebbe cambiare anche la narrazione. Sto riflettendo su questo aspetto e, in particolare, sulla mia esperienza di affermazione di genere verso il maschile. Mi sento ancora più responsabile nel cercare di proporre un discorso su questi temi. Forse dovrei partire da me stesso, perché non ci sono uomini che raccontano di essere usciti dalla violenza. Quando un uomo fa coming out come persona violenta, la risposta che riceve spesso è il call-out o l’isolamento. E mentre ne parlo con voi, mi rendo conto che io stesso, in realtà, ho condiviso poco su questo argomento. Creare una narrazione collettiva sarebbe fondamentale. Al momento non frequento spazi di soli uomini, perché la mia esperienza è diversa da quella di un uomo cisgender, e mi sentirei a disagio in ambienti composti unicamente da uomini abusanti. Ma, al di là della visione dicotomica della nostra società, credo che il primo passo sia riconoscere che la violenza può essere presente in ognuno di noi.
Lo stesso vale per l’omofobia e la transfobia, anche negli ambienti di attivismo, dove spesso manca l’autocritica. Io stesso ho avuto atteggiamenti misogini e, pur essendo una persona trans, potrebbe capitarmi di avere pensieri transfobici. C’è molta misoginia interiorizzata, binarismo interiorizzato e comportamenti problematici che non vengono affrontati. Anche chi si occupa di abolizionismo raramente si interroga su queste dinamiche.
Anche la parola abolizionismo a volte mi sembra vuota: il carcere non smetterà di esistere da un giorno all’altro, lo sappiamo tutti. È un orizzonte, un’ambizione. Se il carcere sparisse oggi, non sarei felice, perché la società così com’è non sarebbe in grado di gestire il cambiamento. Il punto non è solo abolire il carcere, ma creare luoghi e comunità in cui una persona possa comunicare che ha bisogno di aiuto dopo aver commesso qualcosa. Identificare una persona solo con il suo reato è pericoloso. Io, ad esempio, non sono una persona violenta, ma ho avuto comportamenti violenti. Sono grato di aver avuto modo di lavorarci, ma non vi nascondo che, dopo il mio ultimo coming out pubblico su questo tema, una persona si è allontanata da me. Ha persino chiesto a un’amica se fossi pericoloso. Mi è venuto da ridere, ma poi mi sono sentito male: ho riflettuto su quanto io sia un’eccezione e su come, se la stessa cosa l’avesse ammessa un mio zio o un mio amico, probabilmente nessuno lo avrebbe più voluto vicino.
Le dinamiche punitive sono quindi presenti anche negli spazi di attivismo, sia territoriali che online?
Sicuramente. Mi viene in mente proprio il modo in cui affrontiamo questi temi nell’attivismo online, sui social, dove mi sembra che ci sia molta aggressività nei confronti di chi commette il minimo errore. Sui social, si rischia di venire attaccati anche per questioni come l’utilizzo improprio di schwa e asterisco. Non sto dicendo che il linguaggio non sia importante, anzi, ci rifletto moltissimo. La tensione che si crea, però, è controproducente. Pubblico molto, ma a volte evito certi temi per paura delle reazioni. Se questo accade tra persone con affinità politiche, cosa succede fuori?
La vita digitale è parte della realtà e se la reazione a un errore è solo l’attacco, allora dov’è la cura? Ho la sensazione che spesso si aspetti solo che qualcuno sbagli per colpirlo. Il primo passo, invece, dovrebbe essere riconoscere che tutti possiamo sbagliare. Ieri, per esempio, una mia amica ha fatto una battuta infelice sul fatto che io abbia deciso di fare il Ramadan. Gliel’ho fatto notare, ne abbiamo parlato, si è scusata più volte e ha cambiato atteggiamento. Questo per me è stato un atto di cura. Se invece avessi reagito etichettandola subito come islamofoba, l’avrei solo allontanata, senza darle la possibilità di capire e migliorare.
Tra di noi, tra chi fa attivismo, dobbiamo normalizzare l’errore. Il problema è che molte persone si sentono immuni da tutto: dalla misoginia, dalla transfobia, dallo specismo. Questa convinzione non aiuta nessuno, tantomeno l’abolizionismo: aiuta solo a mantenere lo status quo.
Qualche consiglio
Su il Tascabile, una riflessione di Cecilia Arcidiacono per pensare (e pensarsi) oltre la giustizia punitiva.
Il libro di Giulia de Rocco “Aboliamo il carcere. Immaginare un futuro senza prigioni”, che non abbiamo ancora letto, ma ci piacerebbe recuperare a breve. De Rocco non parla solamente del superamento degli istituti di detenzione, ma della necessità di una trasformazione più ampia che parta dalla nostra intimità, dalle nostre relazioni e dalle nostre comunità, per stravolgere i binomi vittima/carnefice, innocente/colpevole.
L’archivio digitale di Robin Book in cui sono disponibili diverse risorse in italiano sui temi del femminismo anticarcerario, dell’abolizionismo e della giustizia trasformativa.
Il libro edito da Meltemi “Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel culture”, scritto da adrienne maree brown e curato e tradotto da Dalla Ridda, un progetto di ricerca queer transfemminista e indipendente di Bologna.
Gli approfondimenti video (in lingua inglese) “What is Transformative Justice?” e “Everyday practices of Transformative Justice” del Barnard Center for Research on Woman.
Free Palestine
Alla fine del 2024, secondo i dati sommari forniti da Israele ed esaminati dall’ong indipendente B’Tselem, le persone palestinesi detenute sotto custodia israeliana erano 9.619 per non meglio definiti motivi di “sicurezza” e 1.705 per soggiorno irregolare in territorio israeliano.
Un tribunale della Louisiana, negli Stati Uniti, ha stabilito che l’attivista per la Palestina Mahmoud Khalil potrà essere espulso dal Paese. Ne scrive Il Post.
È morto nella prigione israeliana di massima sicurezza di Megiddo il diciassettenne palestinese Walid Khaled Abdullah Ahmad, che era detenuto senza accuse da 6 mesi. Fanpage ha analizzato il referto dell’autopsia.
È stato liberato dopo 9 anni e mezzo di carcere il palestinese Ahmad Manasra, che era stato arrestato nel 2015 all’età di 13 anni. Amnesty International, nel suo comunicato, ha scritto che “considera questo un caso esemplare delle sistematiche violazioni dei diritti umani subite dalle persone minorenni palestinesi all’interno del sistema carcerario militare israeliano”.
Grazie per essere arrivatə fin qui.
Se vi va di scriverci per feedback, commenti e segnalazioni in risposta a questa mail o tramite i nostri canali, a noi fa sempre piacere.
A presto!
Mafalda, Nicolò, Gina ed Elisa
Un ringraziamento speciale per questo numero va, di nuovo, a Carmine Ferrara.
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