#14: "Il carcere e il mio corpo: due prigioni"
Intervista a Carmine Ferrara: fare ricerca partecipativa sulla detenzione di persone trans.

Ciao a tuttә!
Questo è il #14 di Fratture, la newsletter che una volta al mese vi racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Oggi, come promesso, continuiamo il percorso dedicato all’approfondimento della condizione detentiva delle persone trans.
Nel #13, abbiamo intervistato Anna D’Amaro, parte del direttivo ed ex-operatrice del Movimento identità trans (Mit), un’associazione per i diritti e la dignità delle persone trans fondata nel 1979.
Questa volta, invece, abbiamo dialogato con il sociologo Carmine Ferrara, che ha svolto una ricerca partecipativa con le donne trans detenute nella Casa circondariale di Poggioreale, a Napoli. Siccome l’intervista è durata più del solito, abbiamo deciso di dividerla in due parti: qui trovate la prima, mentre la seconda uscirà il 15 aprile.
L'audio integrale di entrambi i numeri uscirà direttamente il prossimo mese. Nel frattempo, però, è comunque disponibile la lettura automatica di Substack.
Per agevolare la lettura, vi lasciamo un breve indice delle domande:
1) Genesi della ricerca
2) Metodologie e prospettive
3) Carcere come istituzione porosa
4) Binarismo di genere
5) Background delle persone trans detenute
6) Uomini trans detenuti
7) Sezioni separate per le donne trans detenute
8) Supporto medico per le donne trans detenute
9) Risultati
Infine, vi ricordiamo che, se vi piace Fratture e ne avete la possibilità, la nostra newsletter può essere sostenuta economicamente su Ko-Fi, con una donazione singola o in forma di abbonamento mensile.
Buona lettura!
1) Ti andrebbe di presentarti e di raccontarci com’è nata la tua tesi di dottorato?
Certo, allora, mi chiamo Carmine Ferrara e sono un sociologo trans non binario. Mi sono formato all’Università Federico II di Napoli: il mio era un dottorato multidisciplinare in studi di genere, denominato Mind Gender and Language; il mio settore era la sociologia. Avendo vinto un dottorato senza borsa, ho avuto una certa libertà nel condurre questo studio e questo è stato per me molto importante. Rispetto al mio posizionamento, io mi definisco un sociologo militante. Nasco come attivista queer ed è così che ho avuto accesso al carcere: non sono entrato come ricercatore, ma come volontario. Dopo il lockdown, facevo ancora parte di Arcigay Napoli, di cui oggi non sono più membro. L’associazione aveva siglato un protocollo di intesa con una sauna gay e la Casa circondariale di Poggioreale, e aveva selezionato alcune persone [tra cui Carmine, ndr] per creare uno sportello all’interno del carcere. Il protocollo si proponeva di supportare la popolazione Lgbt detenuta a Poggioreale, dove - oltre alla sezione trans - c’è anche quella cosiddetta “omosex”, in cui sono detenute persone omosessuali e bisessuali, ma in realtà anche alcune donne trans.
2) Quali prospettive e metodologie hai adottato nella tua ricerca?
Da un punto di vista sia teorico che politico, mi rifaccio alla prospettiva abolizionista del carcere. Come sociologo qualitativo, il mio desiderio era quello di fare un’etnografia: non essendo però una persona reclusa e avendo accesso a un campo in qualche modo creato artificialmente - io non entravo nelle celle -, ho dovuto creare un setting ad hoc nel quale avere delle discussioni. Questo indipendentemente dalla mia ricerca, lo facevamo come volontari e volontarie. Vinto il dottorato, ho pensato di proporre la ricerca alle donne trans detenute: volevo capire se per loro potesse essere interessante o utile. In quanto persona trans, conosco il problema di fare ricerca su di noi, soprattutto se fatta con un approccio estrattivista (*). Devo dire che abbiamo registrato entusiasmo e dico abbiamo perché non sono mai entrato da solo in carcere: la scelta del gruppo era di essere sempre almeno in due. Per la maggior parte del tempo eravamo io e una collega psicologa; poi c’erano anche un’operatrice alla pari, che era una donna trans con esperienza di detenzione, e altri volontari.
* Nella ricerca, il termine estrattivista si riferisce a un approccio in cui le persone raccolgono informazioni e dati da una comunità senza restituire benefici significativi a chi ha contribuito.
Prima di tutto, ho dovuto spiegare cos’è un sociologo, cosa vuol dire fare ricerca sociale e che la ricerca sociale si può fare in vari modi. In carcere non mi era consentito registrare, quindi non potevo proporre né un’intervista classica né un focus group tradizionale, che avrebbero richiesto la registrazione e la trascrizione. Oltre alle discussioni di gruppo e ai colloqui individuali, ho quindi pensato di esplorare anche un altro tipo di canale: quello del visuale, attraverso il disegno. Molte delle persone detenute avevano un background migratorio e, in più, io mi ero avvicinato nella mia formazione a quelli che sono definiti come “metodi creativi per la ricerca sociale”. Ho messo sul tavolo questa possibilità e la risposta è stata positiva: le persone volevano provare tutto, anche se all'inizio c’è stata un po’ di riluttanza rispetto al disegnare. Il timore era quello di non essere in grado; poi, quando hanno visto come disegno io, si sono rilassate e hanno iniziato a farlo, divertendosi anche.
Il processo conoscitivo è stato intenso: per me la ricerca è uno strumento per fare attivismo, per costruire conoscenza affinché lo stato delle cose possa migliorare. In seguito, ho avuto qualche riscontro da parte di alcune delle persone che hanno partecipato. Sono rientrato in carcere lo scorso dicembre per una “tombolata scostumata” organizzata dalla cooperativa sociale Dedalus e da Arcigay Napoli e purtroppo alcune delle persone che erano uscite sono rientrate: questa è una cosa che succede spesso e dimostra proprio il fallimento del carcere. Da questa ricerca, oltre al capitolo di un libro [disponibile in open access, ndr], la tesi e altre pubblicazioni scientifiche a cui sto lavorando, è nato un piccolo spettacolo, una breve performance teatrale. Anche in questo caso, ho avuto modo di farla vedere a due donne trans che erano state in carcere: avere dei riscontri da parte loro è stato importante sia nella fase di costruzione del progetto che in seguito.
3) Nella tua ricerca definisci il carcere non solo come istituzione totale, ma anche come istituzione porosa: che cosa intendi?
Da un punto di vista squisitamente teorico, sono partito dall’opera di Erving Goffman e dal concetto di “istituzione totale” (*), ma nel corso della ricerca ho preso atto anche di elementi che, per fortuna, non erano tipici dell'istituzione totale. Nella Casa circondariale di Poggioreale e in quella di Secondigliano, le persone detenute possono indossare ciò che preferiscono, anche capi di abbigliamento femminile. Non è scontato, dato che stiamo parlando di due carceri maschili. Ho avuto modo di confrontarmi su questi temi con alcune persone di altri Paesi, europei ma non solo: una donna cubana, per esempio, mi ha raccontato che nel suo Paese di origine le erano stati rasati i capelli e che era stata obbligata a indossare una divisa, mentre in Grecia una sua amica era stata messa insieme ai detenuti di genere maschile e non poteva vivere la sua espressione di genere liberamente.
* Erving Goffman, nel libro Asylums (1961), ha definito “istituzioni totali” quei luoghi in cui le persone vivono separate dalla società per un periodo prolungato e dove tutte le dimensioni della loro vita quotidiana sono rigidamente organizzate da un'unica autorità.
Quanto alla porosità, si tratta di una riflessione teorica sviluppata da Rachel Ellis, che ha trovato riscontro nel mio studio empirico: la nostra presenza era qualcosa che entrava, attraversava il carcere, portando dentro beni materiali - come cancelleria, trucchi o vestiti - e conoscenze. Viceversa, prendevamo da dentro e portavamo fuori, oltre a nuove conoscenze, anche bigliettini con delle richieste. Ad esempio, una donna completamente sola ci ha chiesto di verificare se il suo cane stesse bene, dal momento che era stato portato in un canile al momento dell’arresto. La questione della porosità è bidirezionale: anche il fuori può plasmare il dentro. Il fatto che il carcere preveda una sezione ad hoc è sintomo di una trasformazione sociale che è avvenuta con delle istanze che provengono anche dall’esterno e che costringono l’istituzione a prendere dei provvedimenti. Oppure, attraverso la presenza di associazioni, collettivi e volontari, è stata data la possibilità alle persone detenute di incontrare un medico endocrinologo per la terapia ormonale sostitutiva. Se non ci fosse l’esterno a fare un lavoro di pressione, le sole proteste dall'interno spesso non basterebbero. Pressioni da dentro e pressioni da fuori possono fare in modo che le cose cambino.
Un altro elemento su cui ho riflettuto prima, durante e dopo la mia ricerca è stato il mio stesso posizionamento. Buona parte della mia famiglia ha attraversato gli spazi del carcere o è attualmente detenuta, e provengo da una classe sociale molto bassa - Marx l’avrebbe definita Lumpenproletariat (*), probabilmente. Sono inoltre cresciuto ascoltando un certo tipo di musica, quella neomelodica. Allo spettacolo prima dell’estate [che si teneva in carcere, ndr] si cantavano canzoni neomelodiche e io le conoscevo: ci siamo commossi insieme. In più, conosco il napoletano e il gergo della comunità trans napoletana perché, durante l’adolescenza, dopo essere stato cacciato di casa a seguito del mio coming out, sono stato accudito da alcune donne trans. Insomma, è stata importante la mia provenienza geografica, di classe, il fatto di essere una persona queer. Questa ricchezza di esperienza mi ha aiutato, più del mio background teorico, scientifico, sociologico.
* Lumpenproletariat è un termine usato da Karl Marx per indicare la parte più povera e disorganizzata della classe lavoratrice, spesso senza un impiego stabile e coinvolta in attività di sussistenza precarie.
4) Il carcere è basato sul binarismo di genere: come questo dato si ripercuote sulla detenzione delle persone trans?
Il carcere è il luogo del machismo per eccellenza, in particolare il carcere maschile. Rispetto all’ipergenderizzazione (*) del contesto carcerario, questa ha una grandissima influenza sul vissuto delle persone queer in generale, soprattutto coloro con esprimono la propria maschilità distaccandosi dalla norma generale. A fronte di modelli di maschilità così marcati, è come se la femminilità dovesse quasi bilanciare quell’ipervirilità che viene richiesta per sopravvivere all’interno del carcere. Cosa occorre fare, come bisogna performare il genere in un contesto in cui c’è un outing (**) forzato? Sei una donna, sei in un carcere maschile, stai nella sezione trans, è ovvio che sei trans. È una dimensione molto totalizzante, sei messo a nudo. A questo proposito, c’è un disegno che ha dato anche il titolo alla mia tesi, “Il carcere e il mio corpo: due prigioni”, in cui una donna detenuta rappresenta il carcere come un barattolo trasparente all'interno del quale c’è un altro barattolo trasparente con una farfalla.

* L'ipergenderizzazione è un fenomeno in cui le differenze di genere vengono enfatizzate, seguendo una visione rigida e binaria di cosa significhi essere uomo o donna.
** L'outing è quando qualcuno rivela pubblicamente l'orientamento sessuale o l'identità di genere di un'altra persona senza il suo consenso. È diverso dal coming out, che è una scelta personale.
Questo richiama proprio la dimensione della totalità dell’istituzione e dell’assenza di privacy: in carcere non c’è la possibilità di ritirarsi e di stare in uno spazio proprio. La performance di genere è costante, tanto che quelle esperienze di genere che non rientrano nell’ottica più binaria rappresentano degli elementi di tensione. Penso, ad esempio, all’esperienza di una donna trans bisessuale che provava dei sentimenti per un’altra detenuta: questa cosa ha portato a un sacco di scompiglio. La persona corteggiata mi diceva: “Ma che vuole da me, quella è trans, no? Se proprio dovessi stare con una donna, vorrei stare con una come te”, intendendo una persona con un’espressione di genere più maschile.
Poi ho riflettuto molto su quale fosse il criterio per il quale una persona potesse essere assegnata alla sezione trans. All’inizio io pensavo che fosse la medicalizzazione, credevo che nella sezione trans ci fossero solo le donne trans medicalizzate e in quella omosessuale quelle non medicalizzate. In realtà, ho capito che il criterio, fondamentalmente, è l'autodeterminazione, indipendentemente dalla medicalizzazione. Molte donne trans, anche medicalizzate, però, preferivano stare nel padiglione “omosex”, perché si trattava di un padiglione più grande, più ampio, che dava più opportunità di socializzazione, ma anche di accesso ad attività. Le donne trans sono infatti escluse da una serie di attività come, ad esempio, l'utilizzo della palestra, dove non sono previsti spazi protetti. Inoltre, non possono uscire dalla loro sezione, mentre gli uomini gay - o meglio, uomini che fanno sesso con altri uomini - possono avere una vita sessuale affettiva migliore. Quindi, molte donne dicevano di non voler stare in una sezione ristretta con poche donne, con le quali ovviamente c'era un livello di conflittualità altissimo. Nella sezione “omosex” si formavano delle coppie e ci sono state anche delle unioni civili nel corso della mia esperienza di campo.
Detto ciò, nel carcere di Poggioreale c'era una comunicazione visiva tra le donne trans e gli altri detenuti perché a dividere lo spazio era solo una rete. C'erano delle corrispondenze epistolari, amorose, con i detenuti dello stesso padiglione ma di una sezione diversa: il padiglione Roma, infatti, metteva insieme sia le persone trans che sex offenders. Queste due popolazioni ovviamente erano separate, però potevano avere delle interazioni dai balconi. Il momento del passeggio era fondamentale e la dimensione estetica un elemento di grossa tensione. Per esempio, a una ragazza giovane con un'estetica particolarmente gradevole era stato detto: “Tu non devi uscire dalla cella, non ti devono vedere, perché me lo sto corteggiando io a quello”. Insomma, anche in questo caso la performance di genere si sviluppava, soprattutto a Poggioreale, in momenti di scambio con la maschilità canonica.
5) Da quanto hai potuto osservare, da quali contesti geografici e sociali provenivano tipicamente le persone trans detenute? Poi, visto che possono restituire un dato su alcune delle esigenze di queste persone, quali erano le tipologie di reato più diffuse?
Io, di fatto, non ho mai chiesto niente, quindi di queste informazioni sono venuto a conoscenza nel corso dei mesi, durante le discussioni, dopo aver creato una relazione di conoscenza reciproca e uno spazio di fiducia. Il momento dell’arresto è uno dei temi di cui a un certo punto si era discusso e, a questo proposito, erano stati condivisi degli aneddoti, anche particolarmente divertenti. L'ironia è infatti un elemento molto presente nell'esperienza delle donne trans, soprattutto in carcere. Molto più presente rispetto all’esperienza delle donne cis (*) che ho incontrato durante un periodo di ricerca nella Casa circondariale femminile di Pozzuoli. Più o meno tutte avevano vissuti di violenza sessuale e ciò vale anche nel caso delle donne cis, ma il modo in cui venivano riportate queste esperienze mi era molto più familiare quando si trattava di persone trans, e lo dico essendo io stesso un survivor (**). La comunità trans ha questa capacità di raccontare cose pesantissime facendole sembrare quasi divertenti. Alla fine l’ironia è uno strumento di difesa. Ad ogni modo, il background da un punto di vista socio-economico era di una classe sottoproletaria. Una persona veniva da una famiglia di classe comunque medio-bassa, ma era l’unica a ricevere sostegno da parte della famiglia di origine. Questo è un altro elemento importante: le donne trans quasi sempre non possono beneficiare della rete familiare di origine né molto spesso hanno delle relazioni stabili all’esterno.
* Una persona è cis quando la sua identità di genere corrisponde al sesso che le è stato assegnato alla nascita.
** Una persona si definisce survivor quando ha attraversato un vissuto di violenza fisica o psicologica.
Rispetto alle tipologie di reato, si tratta per lo più di microcriminalità, di frequente legata all'esperienza di sex work. Penso, ad esempio, ad alcune storie di vita con cui sono entrato in contatto: il cliente ti chiede di procurargli una dose - quando tu fai uso di droga per uso personale - e alla fine ti ritrovi a essere in alcune intercettazioni. Sono questi, nella maggior parte dei casi, i motivi per i quali sono dentro le donne trans, che spesso devono scontare pochi mesi di pena, ma che poi rientrano. Poi, ci sono ovviamente altri tipi di reati che riflettono i diversi modi di intendere il sex work: c'era chi faceva sex work per strada o in condizioni molto precarie e chi invece faceva sex work anche a livelli lussuosi. Un cliente aveva detto a una persona: “Non farlo più [il sex work, ndr], ti campo io”, omettendo il fatto che fosse sposato e che avesse una famiglia. Lei, quando l’ha scoperto, gli ha distrutto di tutto con una spranga e poi con una tanica di benzina: il reato era quindi danneggiamento. Esistono infine casi isolati di persone che hanno commesso reati più gravi, legati allo sfruttamento della prostituzione.
Rispetto alla provenienza geografica, molte erano italiane, meridionali, ma qualcuna anche dal Nord Italia. Un’educatrice mi ha raccontato che lì trasferivano le persone “che non vuole nessuno”, quindi si trattava di una popolazione altamente conflittuale e problematica, anche ovviamente sul piano della salute mentale. C'era una persona, per esempio, che si presentava con un nome diverso ogni volta e raccontava di avere identità diverse: si trattava di un disagio psichiatrico abbastanza facilmente codificabile come tale. Dopodiché, c’erano anche molte persone migranti di origine soprattutto sudamericana, che venivano per esempio dal Brasile, da Cuba o dalla Colombia. Questa comunità creava molto spesso dei sottogruppi: quello di colombiane ispanofone, quello di brasiliane che parlano portoghese e quello di donne colombiane che avevano studiato infermieristica nel loro Paese di origine. Una di queste donne colombiane voleva studiare come Operatrice socio-sanitaria (Oss), ma in carcere ha avuto molti problemi ad accedere a un corso di formazione; mi sono informato proprio la settimana scorsa e mi risulta che alla fine sia riuscita a partecipare. Le risorse sono poche ed è difficile anche solo prendere la quinta elementare, perché le persone trans non possono stare insieme agli altri studenti. C’erano poi una persona dell'Africa occidentale e una dalla Bulgaria; negli anni ci sono state anche persone del Nord Africa. Riassumendo, il numero più cospicuo era costituito da donne trans meridionali o sudamericane, in condizioni di povertà, prive di una rete di supporto all'esterno, dai livelli di alfabetizzazione tra i più disparati e con difficoltà a trovare un lavoro.
6) Degli uomini trans detenuti in carcere si sa poco o nulla: hai avuto modo di entrarci in contatto? Quali sono le loro esperienze di detenzione?
Gli uomini trans sono all'interno delle Case circondariali femminili e insieme al resto della popolazione carceraria, quindi non c'è, come nel caso delle donne trans, una sezione ad hoc. Non vengono registrati, la loro identità di genere non viene rilevata e quindi sono invisibili. Io, però, ci sono entrato in contatto nell’ambito di un altro protocollo d'intesa, questa volta tra l’Associazione Lesbica Femminista Italiana Alfi Napoli Le Maree, Antinoo Arcigay Napoli e la Casa circondariale di Pozzuoli, che prevedeva lo sportello Over The Rainbow. Qui si presentavano per lo più uomini trans, mentre abbiamo avuto più difficoltà a intercettare le donne lesbiche e bisessuali. Gli uomini trans venivano soprattutto per chiedere informazioni rispetto alla rettifica anagrafica o all’inizio della terapia ormonale, quindi per medicalizzarsi, e in un caso per sposarsi. Due delle persone recluse le avevo già conosciute fuori e con loro ho avuto delle conversazioni anche molto profonde. Non avevano il desiderio di andare in un carcere maschile: “Nuje stammo accussì bene ccà, stai scherzando? Insieme ai maschi?”. Questo ragazzo, che aveva poco più di vent'anni, mi ha detto: “Guarda, qua ci trattano come dei prìncipi, molto spesso ci fanno saltare i turni delle pulizie perché, sai, io sono un uomo, quindi non devo fare le pulizie. E poi si scopa”. Questo accade in qualsiasi carcere, ma gli uomini trans vivono i rapporti sessuali con minore stigma rispetto agli uomini cis “etero” in un carcere maschile o anche alle stesse donne “etero” che hanno rapporti con altre donne. Ciò spiega perché non ci sia pressione da parte degli uomini trans affinché ci si attivi nei loro confronti al fine di creare una sezione separata come per le donne trans.
Il dato sulla invisibilità lo leggerei in questo modo, da un punto di vista sia politico che sociologico: dà molto meno fastidio una donna che si mascolinizza rispetto a un uomo che si femminilizza. Il problema è la femminilità, questo femminile che viene vessato e che dà fastidio, che crea scompiglio anche rispetto alla sessualità. Alla fine gli uomini trans detenuti nelle carceri femminili vengono percepiti come donne e non sono insomma un problema per l'ordine del carcere: da quello che loro stessi mi hanno raccontato, c’è un equilibrio. L’invisibilizzazione, però, significa anche che ci sono dei bisogni specifici degli uomini trans difficili da rilevare: penso ai binder per il torace o ad altri prodotti per l’affermazione di genere. Tutte cose a cui potevamo provvedere nel caso delle donne trans: per loro potevo raccogliere le richieste di leggins o mutande contenitive, ad esempio.
Infine, c’è sicuramente una maggiore criminalizzazione delle donne trans per via di una profilazione di genere e poi anche per una questione di marginalizzazione sociale. Vi faccio un esempio: a Ortigia, pochi mesi fa, si è tenuto il convegno nazionale di noi ricercatori trans; non c'erano ricercatrici trans presenti, ma, siccome era un convegno che metteva insieme ricerca e attivismo, c'era qualche donna trans. Di donne trans in accademia non ce ne sono tante, anzi ce ne sono pochissime. Questa maggiore marginalizzazione porta all’abbandono scolastico e a più condotte definite “devianti”; analogamente, questa maggiore criminalizzazione porta a maggiori arresti.
7) Come dicevi, dà molto meno fastidio una donna che si mascolinizza rispetto a un uomo che si femminilizza: credi che l'istituzione di sezioni ad hoc sia un elemento positivo a tutela delle donne trans?
Sulla base di quello che ho osservato, la sezione trans è necessaria proprio per una questione di sopravvivenza all'interno dell'istituzione, perché una donna trans in mezzo agli uomini cis rischia la sua incolumità fisica e psichica. Credo, quindi, che la separazione sia in qualche modo necessaria. Non so, però, quanto sia giusto che questa separazione venga fatta all’interno di un istituto maschile: si potrebbe pensare piuttosto di creare delle sezioni all’interno delle carceri femminili. Anche perché, ad esempio, il fatto che attualmente non ci sia personale penitenziario femminile, soprattutto nel momento della perquisizione, in cui le donne trans si devono spogliare, rappresenta una violenza non di poco conto. Per ricapitolare, credo che la separazione attualmente sia necessaria. Allo stesso tempo, però, è necessario che poi si investa in queste sezioni per le donne trans. Al momento, queste sezioni separate costituiscono una tripla punizione: sei arrestata, sei isolata e sei tagliata fuori da una serie di opportunità. In più, il personale penitenziario non è formato, quindi attua spesso forme di denigrazione, come il misgendering (*). La prima volta che sono entrato a Poggioreale, ho detto: “Salve, sono qui per incontrare le donne trans”; la risposta è stata: “Ma perché, ci stanno femmine qua?”. Mi hanno riso in faccia.
* Il misgendering consiste nel riferirsi a una persona con un genere, un pronome o un nome che non corrisponde alla sua identità di genere.
Bisognerebbe dare maggiori opportunità a queste persone, che tra l’altro anche fuori dal carcere hanno - dal punto di vista statistico - meno possibilità: è un dato di fatto, ad esempio, che il mercato del lavoro sia più escludente nei confronti delle donne trans. Queste sezioni andrebbero quindi potenziate, sia attraverso il coinvolgimento di associazioni queer presenti sul territorio sia attraverso la possibilità di partecipare alle attività previste per le altre persone, come la palestra, la scuola e i corsi di formazione. Anche il corso per fare la pizza: perché loro non devono imparare a fare la pizza? In più, il personale penitenziario che interagisce con le donne trans non dovrebbe essere composto da uomini e dovrebbe essere formato sì sulle questioni di genere, ma anche sulle infezioni a trasmissione sessuale, ad esempio. C'è un’ignoranza dilagante in questo ambito, nonostante molte persone convivano con Hiv o altri tipi di infezioni a trasmissione sessuale. Ad esempio, a una delle detenute non era stato permesso di lavorare come portavitto perché positiva all'Hiv: non c'è assolutamente nessun motivo per cui una persona che vive con l'Hiv non possa lavorare come portavitto. Inoltre, molte persone che scoprono di essere positive, magari proprio all'interno del carcere, applicano su se stesse uno stigma pesantissimo.
8) Nel tuo lavoro emerge la necessità delle donne trans di essere seguite da diverse figure mediche a supporto anche del loro vissuto. Come mai spesso non si riesce a rispondere a questo bisogno: si tratta di una mancanza di risorse che colpisce l'istituzione penitenziaria in toto o c’è una difficoltà specifica nel farsi carico delle necessità delle persone trans?
Tutte e due le cose. Ottenere un controllo medico in carcere è complicatissimo in generale: è preoccupante, perché il diritto alla salute non viene garantito. In più, il personale penitenziario non conosce i bisogni specifici delle persone trans e, quindi, vede le richieste come dei capricci. Il pensiero alla base spesso è: “Ma come ti viene in mente di chiedere una visita endocrinologica in carcere?”. Per quanto riguarda il sostegno psicologico, sulla base della mia esperienza i gruppi di auto-mutuo aiuto rappresenterebbero una risorsa utilissima: le donne trans detenute hanno tutte, nessuna esclusa, vissuti traumatici. Di recente, sono entrato in carcere per un cineforum rivolto a loro, creando anche un momento di dibattito e diffondendo alcuni materiali sulla storia del movimento trans. La risposta è stata estremamente positiva: quello che ho percepito da parte loro è stato un grande bisogno di rafforzarsi sul piano emotivo, fisico e psichico. Il carcere indebolisce, rende vulnerabili: tutta la popolazione detenuta, ma le donne trans in particolare. Mi rendo conto, dunque, di quanto le persone queer in carcere abbiano bisogno di incontrare altre persone queer che, però, abbiano un certo tipo di approccio: non paternalistico, ma di sorellanza, di solidarietà e supporto.
9) Quali sono i risultati più rilevanti emersi dalla tua ricerca e dal tuo confronto con le persone detenute?
Per rispondere, riprendo un po’ la questione del metodo. Questi risultati sono stati costruiti attraverso una ricerca che ho cercato di rendere il più possibile partecipativa, con tutti i limiti dati dal contesto. Tra le difficoltà principali, c’è stato il fatto che il gruppo cambiava frequentemente composizione e che, in ogni caso, io ero in una posizione di maggiore potere rispetto alle persone con cui mi relazionavo. In più, questa ricerca non è stata finanziata: l’ho portata avanti per una questione più politica che scientifica. L’obiettivo di questa ricerca era quello di fotografare la condizione detentiva delle donne trans e individuare delle aree di intervento affinché questa condizione potesse migliorare. Le problematiche principali le abbiamo già citate nel corso dell'intervista: il dato della tripla punizione, l’inefficacia allo stato attuale della segregazione. Come leve di intervento, invece, ho identificato principalmente la formazione del personale penitenziario, il potenziamento delle opportunità, anche attraverso interventi di autoformazione tra loro, e una maggiore attenzione alla sfera della salute. In più - ci stavo pensando ora -, sarebbe estremamente importante rafforzare il legame tra la comunità queer locale e la comunità queer detenuta. Creare una rete permetterebbe, tra le altre cose, di poter essere d’aiuto rispetto ai numerosi trasferimenti di queste persone da un istituto a un altro.
Alcuni consigli
“Gattebuie. Voci femministe sul carcere”: l’ultimo numero della rivista DWF tratta anche la detenzione delle persone trans.
Un’intervista ad Antonella Massaro, professoressa associata di diritto penale all’Università Roma Tre, sul perché le persone trans detenute vivano una doppia detenzione.
Free Palestine
Alcuni detenuti palestinesi, rilasciati di recente, hanno raccontato a Middle East Eye di avere subito torture all’interno delle carceri israeliane.
“Perché ci sono così tanti bambini nelle prigioni israeliane?”: l’articolo di Al Jazeera disponibile anche in italiano, su Pagine Esteri.
Come funziona la detenzione amministrativa israeliana e qual è il trattamento riservato alle persone palestinesi in carcere: il racconto di Abdul Massit Mutan, intervistato da Francesca Mannocchi per Piazza Pulita.
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A presto!
Mafalda, Nicolò, Gina ed Elisa
Un ringraziamento speciale per questo numero va a Carmine Ferrara.
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