#13: La detenzione delle persone trans in Italia
Intervista ad Anna D’Amaro del Movimento Identità Trans.

Ciao a tuttә!
Questo è il numero tredici di Fratture, la newsletter che una volta al mese vi racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Oggi ci occupiamo delle condizioni detentive delle persone trans e lo facciamo insieme a Ibérica, la newsletter dedicata alla Spagna e al Portogallo scritta da Roberta Cavaglià, giornalista e consulente in comunicazione freelance.
Funziona così: Fratture propone un’intervista per esplorare la situazione dellə detenutə trans in Italia; Ibérica esce contemporaneamente con un numero sullo stesso tema, ma concentrandosi sulla Spagna.
Siamo molto felici di collaborare con Roberta: grazie al suo sguardo sulla Spagna, noi per prime ci siamo fatte un’idea sulle analogie e differenze con il contesto italiano. Se ancora non la conoscete, vi invitiamo a leggere, sostenere e iscrivervi a Ibérica, di cui trovate l’archivio con tutti i numeri a questo link.
Prima di entrare nel vivo, un breve annuncio: questa sarà la prima di una serie di puntate dedicate alle persone detenute trans. Un percorso che inizia con questo numero in collaborazione con Ibérica e che proseguirà autonomamente nell’arco dei prossimi mesi. Questo perché si tratta di una parte della popolazione reclusa marginalizzata sia all’interno delle carceri che nel racconto mediatico. Insomma, cercheremo di proporvi degli ulteriori spunti di analisi.
Infine, se vi piace Fratture e ne avete la possibilità, vi ricordiamo che la nostra newsletter può essere sostenuta economicamente su Ko-Fi, con una donazione singola o in forma di abbonamento mensile.
È tutto, buona lettura!
Un po’ di contesto
Secondo il Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt), un organo costituito dal Consiglio d’Europa ma composto da membri indipendenti, le persone trans dovrebbero essere collocate nella sezione corrispondente al genere con cui si identificano. Un principio, questo, che verrebbe meno solo se dopo una valutazione individualizzata emergessero rischi connessi alla sicurezza personale.
In Italia questa indicazione non viene seguita: l’assegnazione della persona detenuta all’interno del carcere si basa prima di tutto sul sesso riportato nei documenti e non sull’identità di genere. Poi, se si temono aggressioni o sopraffazioni motivate dall’identità di genere o dall’orientamento sessuale, l’articolo 14 dell’Ordinamento penitenziario prevede che lә detenutә possa essere collocatә in una sezione protetta “apposita”, separata dalle altre e internamente omogenea: nel caso di persone trans, la sezione dovrebbe essere quindi rivolta solo a loro. Come vedremo, però, non è sempre così.
In base al monitoraggio effettuato dall’associazione Antigone, nel 2023 le donne trans detenute in carcere erano 72. Di queste, 69 erano recluse in sezioni protette “apposite”, cioè per sole donne trans, di cui sono provvisti 6 dei 190 istituti penitenziari: Como, Reggio Emilia, Ivrea, Rebibbia, Napoli e Belluno. Altre 2 donne erano invece ristrette in sezioni protette “promiscue”, cioè tutelanti nei confronti di più categorie a rischio (tra cui, ad esempio, quella dei sex offenders). Infine, 1 persona si trovava in isolamento.
Se sono state registrate la presenza e la distribuzione delle donne trans in carcere, lo stesso non si può dire a proposito degli uomini trans. Di queste persone si sa poco o nulla, tanto che nel 2022 Antigone ha scritto che «non esistono», almeno secondo i dati a disposizione. Visto che solitamente non costituiscono un problema per la sicurezza, gli uomini trans non impongono la necessità di essere tracciati dall’amministrazione penitenziaria: nelle sezioni femminili, dove sono reclusi, quasi mai subiscono comportamenti violenti da parte delle compagne di detenzione, al contrario di quanto avviene nei confronti delle donne trans recluse nelle sezioni maschili. Sfuggendo ai censimenti, gli uomini trans non possono che ricevere una tutela ancora minore e un trattamento che non è pensato per i loro bisogni specifici, a riprova di una prassi valida più in generale nel contesto penitenziario: le necessità di coloro che non rappresentano una minaccia per l’ordine interno al carcere difficilmente vengono considerate.
E anche quando vengono considerate, come nel caso delle donne trans, ciò non è sinonimo di un'adeguata presa in carico. Le persone trans, ha osservato sempre Antigone, subiscono un «surplus di stigmatizzazione» e hanno meno accesso alle attività trattamentali. Non è inoltre garantita la continuità del programma terapeutico, che dovrebbe essere invece assicurata dall’art. 11 dell’Ordinamento penitenziario.
Per saperne di più, abbiamo intervistato Anna D’Amaro, parte del direttivo ed ex operatrice del Movimento identità trans (Mit), l’associazione per i diritti e la dignità delle persone trans fondata nel 1979.
Iniziamo. Ti andrebbe di presentarti, raccontando il tuo ruolo all’interno del Mit?
«Certo. Ho curato il progetto carcere del Mit per 4 anni, entrando regolarmente nell’istituto penitenziario di Reggio Emilia. Oggi non mi occupo più di tutte le attività che seguivo prima; continuo, però, a fare una volta alla settimana colloqui in carcere, anche se da remoto, perché non vivo più in Emilia-Romagna. Inoltre, sono la tutor universitaria di una delle donne trans detenute a Reggio Emilia e con lei ho un rapporto continuativo».
Da quanto tempo il Mit si occupa di carcere?
«Il Mit si occupa di carcere da molti anni, non saprei dirvi quanti di preciso. Il movimento è stato fondato anche da Porpora Marcasciano, che è stata sia presidente sia operatrice dell’organizzazione e che negli anni ‘70 è stata arrestata per il reato di travestitismo. Marcasciano scrive di questa vicenda anche nel suo libro “L’aurora delle trans cattive”: si era truccata in un modo oggi considerato quasi impercettibile, ma che a quei tempi aveva suscitato molto scalpore. Ha subito un arresto molto breve in realtà, ma quell’evento l’ha colpita molto. A impressionarla è stata soprattutto la violenza di una legge che, negando l’esistenza delle persone trans, le ha rese più esposte alla carcerazione e all’isolamento. È stato proprio dopo questa esperienza che ha deciso di occuparsi anche di persone trans detenute».
In che cosa consiste più nello specifico e come si è evoluto nel tempo il progetto del Mit dedicato alle persone trans detenute?
«Il progetto ora è diverso da com’era prima della pandemia: in questo momento si occupa principalmente di offrire sostegno, attraverso i colloqui, alle donne trans detenute. Il colloquio può essere un momento di incontro in cui confrontarsi su alcune questioni o parlare di come si sta, ma anche l’occasione per domandare cose più pratiche relative alle situazioni legali o alla necessità di avere precisi beni materiali.
Io al momento mi occupo soprattutto del carcere di Reggio Emilia: quando ho iniziato, c’erano dodici donne trans detenute e facevo i colloqui con tutte e dodici ogni settimana. Il progetto all’inizio prevedeva soltanto i colloqui perché non aveva fondi per occuparsi di altro; era impensabile, ad esempio, poter acquistare beni materiali. Allora, abbiamo organizzato alcuni eventi di sensibilizzazione per la cittadinanza sulle condizioni detentive delle persone trans, così da raccogliere i soldi necessari per comprare quanto ci veniva domandato dalle persone detenute. In più, ci siamo occupate anche di organizzare colloqui con le famiglie: la maggior parte delle donne trans in carcere a Reggio Emilia sono migranti, molto spesso c’è bisogno di intercettare i parenti e dare una mano nella traduzione, così da spiegare anche solamente come poter fare i colloqui.
In un secondo momento, insieme all’avvocata Antonietta Cozza, abbiamo fatto dei colloqui congiunti, in modo tale che lei potesse avere un’idea della situazione legale di ogni donna trans. Infine, negli ultimi anni, su richiesta proprio delle donne trans detenute, abbiamo cominciato anche un progetto di educazione alla sessualità, all'affettività e all'emotività. Infatti, la maggior parte di loro ha svolto lavoro sessuale e ci ha raccontato di non aver avuto piena contezza degli strumenti di prevenzione: il desiderio, dunque, era quello di conoscerli e potersi tutelare.
Negli anni, quindi, gli interventi sono stati di sostegno emotivo, di supporto legale e materiale. Per noi è importante esprimere solidarietà dando alle persone la possibilità di confrontarsi, cosa per niente scontata in un posto come il carcere, dove la sensazione di isolamento è forte e non ci sono mai abbastanza psicologhe a disposizione».
Hai avuto esperienze anche in altri istituti, oltre a quello di Reggio Emilia?
«Ho fatto anche dei colloqui a San Vittore, con una donna trans detenuta che era stata collocata nella sezione dei sex offenders: una consuetudine assurda, che viene portata avanti da anni. Ad oggi ci dovrebbero essere delle regolamentazioni [l’assegnazione dovrebbe avvenire «per categorie omogenee» in base all’art. 14 dell’Ordinamento penitenziario, ndr] che non permettono di detenere le donne trans con le persone sex offenders, a meno che non abbiano compiuto atti di violenza sessuale: grazie a una relazione scritta insieme all'avvocata di questa donna, siamo riuscite a farla trasferire nel carcere di Reggio Emilia».
Oltre a questa attività che portate avanti, esistono dei servizi forniti dallo Stato pensati espressamente per le persone detenute trans?
«No, non esistono, e questo totale disinteresse è presente anche una volta terminato il periodo detentivo. Il Mit, quindi, ha messo delle case a disposizione di alcune donne trans che, una volta uscite dal carcere, si erano trovate senza alcun punto riferimento o risorse. Quello delle case è un progetto portato avanti insieme al Comune di Bologna, pensato per offrire ospitalità, per brevi periodi, a persone trans adulte in condizioni di grave marginalità. Di tutto ciò, però, dovrebbe teoricamente occuparsene lo Stato.
Anche per quanto riguarda la possibilità di frequentare dei corsi universitari non c’è alcun supporto. Questo tema, come quello dell’accompagnamento nel periodo successivo al carcere, è molto importante: l’istruzione permette a chi è detenuta di costruirsi delle prospettive future. Lo dico anche perché molte delle donne trans detenute hanno svolto lavoro sessuale, un lavoro che non è riconosciuto in Italia: questo significa che nessuna di loro, quando vorrà smettere di lavorare, avrà qualche sostegno economico per sopravvivere, come una pensione. Studiare e poter avere una rete di supporto uscite dal carcere, quindi, risulta fondamentale per far fronte alle difficoltà o per immaginare futuri alternativi. Questo è ancora più valido per una persona migrante, spesso senza documenti e senza famigliari nel territorio».
Quali sono le maggiori difficoltà che affrontano le persone trans nelle carceri italiane?
«Le persone trans subiscono la stessa oppressione che subiscono tutte le altre persone detenute, però alcune differenze ci sono. Vi faccio sempre l’esempio di Reggio Emilia, perché questa è la mia esperienza. Lì, le donne trans sono detenute dove c'era l'Opg, l'ospedale psichiatrico giudiziario, in una sezione dedicata e distaccata dalle altre. Solitamente, fuori dal reparto ci dovrebbe essere quello che viene chiamato l'assistente, cioè una persona della polizia penitenziaria, ma da loro non c’è. Questo significa che, per ottenere l'attenzione di un assistente, le persone devono sbattere i pugni in modo molto forte sulle porte. Dall’esterno, questa potrebbe sembrare una stupidaggine, però dover ricorrere a queste strategie per comunicare con il personale è un problema, soprattutto dal momento in cui, con il Ddl Sicurezza, questi atti potrebbero risultare in un aggravamento della pena. In ogni caso, non avere nessuno di reperibile è molto grave: in carcere ci sono molto spesso tentativi di suicidio; dunque ci dovrebbe essere una persona che quantomeno si occupi delle eventuali emergenze, ma non c’è. Inoltre, alle donne trans l’ora d’aria è concessa molto raramente: escono una volta alla settimana, e solo perché c’è una volontaria che le accompagna.
In più, non viene rispettato il nome d’elezione delle donne trans detenute: gli assistenti spesso usano pronomi maschili per parlare con loro. Per non parlare poi delle attività completamente assenti: prima che arrivasse il Mit non c’era niente. Il carcere di Reggio Emilia ha una falegnameria enorme, dove anche le donne trans potrebbero formarsi o imparare un mestiere: invece nulla. Non avere niente da fare in carcere è un vero stillicidio, amplifica il senso di vuoto e di smarrimento, favorendo l’insorgere di stati depressivi. Quando il Mit ha cominciato ad entrare in carcere, quindi, ha sin da subito insistito, rivolgendosi al Garante regionale dei diritti delle persone detenute perché venissero organizzate delle attività per le persone trans. Ora ci sono il teatro, un gruppo di scrittura, dei gruppi di mutuo aiuto: tutte cose molto belle e utili.
In generale, le persone trans subiscono una forte marginalizzazione, una condizione che va ad aggiungersi alle già gravi condizioni di detenzione che caratterizzano gli istituti penitenziari italiani. Non vengono forniti strumenti di supporto, i percorsi di formazione sono inaccessibili e il carcere si deresponsabilizza totalmente, evitando di farsi carico di queste problematiche. Durante la detenzione, dunque, avviene una totale invisibilizzazione di queste donne e una completa cancellazione delle loro esigenze».
Da quanto hai potuto osservare, le persone trans detenute in Italia hanno sempre accesso all’assistenza sanitaria specifica di cui hanno bisogno?
«Quando entravo io a Reggio Emilia, non c’era nemmeno un’endocrinologa: per molto tempo, quindi, è stato completamente assente qualsiasi tipo di supporto ai percorsi di affermazione di genere. Ora, dopo l’intervento del Mit e le varie pressioni da parte delle donne trans detenute, l’amministrazione penitenziaria ha assunto un’endocrinologa; non so, però, con quanta frequenza faccia visite, non sono più stata aggiornata. Un percorso di affermazione di genere, in ogni caso, è molto complesso: le visite con l’endocrinologa non sono comunque sufficienti. Soprattutto, le donne trans hanno bisogno di esami specifici, che non credo vengano fatti. Non poter ricevere il sostegno medico necessario a portare avanti il proprio percorso di affermazione di genere è una violazione dei diritti umani».
Il Consiglio d'Europa sottolinea che le persone detenute trans dovrebbero essere collocate in sezioni corrispondenti al genere con cui si identificano. In Italia, però, funziona diversamente.
«Sì, in Italia ci sono soprattutto sezioni a parte, solo per persone detenute trans. Una donna trans che ho conosciuto aveva ottenuto la rettifica anagrafica dei documenti, quindi chiedeva di essere detenuta nella sezione femminile. La prassi in Italia, però, vuole che una donna trans possa andare nella sezione delle donne solo se ha prima subito un’operazione chirurgica, ad esempio di vaginoplastica. A volte, poi, le donne trans sono poste in isolamento per un periodo più o meno lungo in attesa di capire dove collocarle».
Per quali tipologie di reato sono generalmente detenute le persone trans?
«Molte persone trans detenute hanno compiuto reati di sopravvivenza, in situazioni di estrema povertà. Mi è capitato di incontrare una persona detenuta per favoreggiamento della prostituzione e lei è una sex worker: questo è un grandissimo paradosso che il Mit ha sottolineato più e più volte. Finché non ci sarà una legge che decriminalizzi il lavoro sessuale, ci saranno sempre queste situazioni paradossali. Lei, nello specifico, aveva dato la possibilità ad alcune sue colleghe di acquistare delle auto perché in strada si lavora spesso come sex-workers all’interno di macchine. È stata condannata a sei anni di detenzione. Questa sentenza, tra l’altro, è arrivata dieci anni dopo il fatto; nel frattempo lei aveva un’altra vita, un compagno, un lavoro diverso, si era disintossicata. Dentro il carcere è diventata dipendente da psicofarmaci. In che modo si è risolta la situazione, qual è il senso di questa detenzione?
Oppure, altre tre o quattro donne sono state detenute perché non avevano i documenti in regola e sono state condannate a un anno di detenzione. Si rovina la vita di una persona con un anno di detenzione. Detenzione, tra l’altro, perché? Perché una persona è illegalmente in Italia secondo le tue regole? Le carceri sono al collasso: finché non si cambia questo sistema, non cambierà niente».
Fai spesso riferimento a donne trans: hai avuto modo di interfacciarti anche con uomini trans?
«No, so solo che alcuni di loro sono detenuti a Napoli».
Tornando alle donne trans, allora, come si relazionano con loro le altre persone detenute e il personale penitenziario?
«Nel carcere di Reggio Emilia c’è moltissima conflittualità, ci sono litigi frequenti. Avevamo cercato di arginare questo problema facendo gruppi di auto-mutuo aiuto e parlando con le persone detenute, cercando di capire i motivi dei disaccordi. Non si riesce però mai a sciogliere veramente la questione: ci sono nuovi ingressi, gerarchie interne che si impongono, gruppi che si formano, persone che decidono di scioperare chiudendosi sempre in stanza. Sono sempre in conflitto tra di loro.
C’è da dire, però, che una delle persone che erano sempre in conflitto sia con le altre detenute che con me, quando ha avuto l'affidamento in prova con il Mit si è mostrata un’altra persona: penso l’aggressività dipenda molto anche dagli psicofarmaci che vengono somministrati e dal contesto di detenzione. Il carcere ti rende ostile. Stai lì tutto il giorno, ogni volta per chiedere qualsiasi cosa devi fare la letterina scritta, che tra l’altro viene chiamata domandina: è un termine che si userebbe con un cinquenne. In generale, viene usato un linguaggio molto infantilizzante. Per ogni piccolezza, devi fare richiesta: tu fai richiesta e non ti fanno più sapere niente. Diventa logorante, sei controllata 24 ore su 24, senza la possibilità di fare niente. Per giunta, spesso si è detenute per motivi ingiusti, come i documenti non in regola.
Il personale penitenziario è sempre ostile, ma con chiunque, anche con noi dell’associazione. Ci sono molte prese in giro. In particolare, nei confronti delle donne trans, spesso agiscono violenza verbale e, a volte, anche molestie. L’educatrice che si occupa della sezione non dà mai attenzione alle esigenze delle donne trans. Il personale, in generale, è oppositivo e aggressivo, con loro e con le persone detenute in generale. C’è l’eccezione, ma solitamente è la regola».
Esiste, che tu sappia, una formazione specifica sulle persone trans e i loro diritti rivolta alle varie figure che operano in ambito penitenziario?
«Che io sappia no, in Italia. Una volta, Porpora Marcasciano ha fatto una formazione a Reggio Emilia insieme all’associazione Ora d’Aria per il personale penitenziario, cioè gli agenti, spiegando loro, ad esempio, come rivolgersi in modo più rispettoso alle detenute trans».
Alcuni consigli
Il romanzo “A nessuno è fregato un cazzo di cosa è successo a Carlotta”, di James Hannaham: ambientato a New York, racconta le vicende di una donna trans prima, durante e dopo la detenzione.
L’episodio “Il conflitto delle persone trans in carcere: un confronto con Carmen Mazza Ferrara” del podcast Le parole fucsia. Per uno sguardo femminista e plurale.
L’articolo “Il carcere e il mio corpo: due prigioni. Etnografia della detenzione trans”, di Carmela Ferrara e Concetta Sorrentino.
Free Palestine
I prigionieri palestinesi rilasciati da Israele mostrano segni di tortura e inedia, evidenzia The Palestinian Prisoners Society. Su Al Jazeera.
Hussam Abu Safiya, pediatra palestinese e direttore di quello che è stato l’ultimo ospedale del nord di Gaza, è ancora detenuto nel carcere israeliano di Ofer, in Cisgiordania. Chiara Cruciati, su il manifesto.
Mahmoud e Ahmad Muna, gestori palestinesi di Educational Bookshop, una rinomata catena di librerie che si trova a Gersualemme, sono stati prima arrestati e poi rilasciati dopo pochi giorni dalle autorità israeliane. Ne scrive Il Post.
Grazie per essere arrivatə fin qui.
Se vi va di scriverci per feedback, commenti e segnalazioni in risposta a questa mail o tramite i nostri canali, a noi fa molto piacere.
A presto!
Mafalda, Nicolò, Gina ed Elisa
Un ringraziamento speciale per questo numero va ad Anna D’Amaro.
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Grazie a voi e al MIT per tutto il lavoro.. queste storie di marginalità estrema sono tenute così separate e lontane dal resto della società che non ha contatti con il carcere, che davvero non ci rendiamo conto. Grazie