
Ciao a tuttə!
Questo è il numero sette di Fratture, la newsletter che racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Oggi, parliamo di soldi.
Ci concentreremo sui costi individuali legati alla detenzione: non parleremo, quindi, di spesa pubblica per le carceri, di appalti o interessi economici. Ci riproponiamo, però, di affrontare la questione in futuro.
Prima di cominciare, una comunicazione di servizio. Nei mesi scorsi, i numeri speciali sono usciti con cadenza regolare, mensilmente. Vorremmo, però, ridare loro un carattere di eccezionalità, pubblicandoli quando sentiremo l’esigenza di approfondire un tema attraverso un’intervista. Questo anche perché Fratture è un progetto indipendente e le nostre energie sono limitate: avere due uscite fisse al mese comporta un impegno che facciamo fatica a sostenere sul lungo termine.
Detto questo, non temete: gli speciali ci saranno, anche se con una frequenza ridotta.
Buona lettura!
La detenzione (non) è una vacanza
Spesso capita di sentir dire o leggere che chi è in carcere abbia vitto e alloggio pagato o che - tutto sommato - chi è privato della libertà personale non se la passi troppo male: in fondo, non deve sborsare un euro. Ma è davvero così?
Spoiler: non c’è nessun vitto e alloggio pagato!
Questo numero vuole sfatare l’idea secondo cui la detenzione sia equiparabile a una vacanza pagata e spiegare, invece, quali siano le implicazioni economiche e sociali del “soggiornare” in carcere. Infatti, i costi della carcerazione - come vedremo - interessano tanto le persone detenute quanto le loro famiglie o reti amicali; alimentano o consolidano condizioni di fragilità sociali ed economiche legate al contesto di provenienza; perpetuano dinamiche discriminatorie.
Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia e ricercatrice universitaria, nel suo libro “L’istituzione reietta. Spazi e dinamiche del carcere in Italia”, scrive che il carcere è abitato prevalentemente da persone già marginalizzate, per le quali la devianza ha costituito una forma di sussistenza economica.
Questo emerge anche dai dati raccolti nel ventesimo report di Antigone: nelle carceri assistiamo a una sovra-rappresentazione di persone straniere - soprattutto al Nord Italia, dove la vita costa di più; i reati più commessi sono quelli legati alla violazione della normativa sulle droghe e i delitti contro il patrimonio (furti e rapine, per intenderci). A essere maggiormente esposte alla detenzione e alla sua violenza sono, dunque, tutte quelle soggettività “reiette”, che fuori dal carcere hanno un accesso limitato a risorse economico-sociali e per le quali il welfare è insufficiente o inesistente.
Come emerge dai grafici, quanto vale per la detenzione di adultə risulta addirittura amplificato negli IPM (Istituti Penali Minorili), dove la percentuale di persone straniere - compreso un alto numero di minori stranierə non accompagnatə - è ancora più alta.

All’interno dell’istituzione carceraria, è possibile usufruire di alcuni servizi che - per quanto scarsi e inadeguati - fuori non sono garantiti. Citando quello che Verdolini ha detto durante una presentazione del suo libro a Torino, il carcere può considerarsi «un presidio di welfare minimo per le persone povere e marginalizzate», e quindi per alcunə è una tappa a cui diventa complicato sottrarsi.
La spirale del controllo che sfocia nella detenzione è insomma sostenuta dalla carenza di interventi volti a garantire uguale accesso a istruzione, cure, lavoro e casa a tutte le persone. Chi si opporrà a tale disuguaglianza o vi porrà rimedio con gli strumenti a propria disposizione verrà punito e corretto con la detenzione.
I servizi offerti dal carcere sono, però, contraddittori, tanto che Simone Materia parla di «welfare penitenziario come strumento di disciplina».
Materia scrive:
«Il welfare penitenziario [per esempio lavoro, istruzione, cure, ndr] è quindi utile per garantire l’ordine interno al carcere, ma incapace di promuovere l’emancipazione successiva, anche nel sottoproletariato precario*, dei soggetti a cui si rivolge. [...] In conclusione, il carcere resta anche oggi uno strumento di regolazione del mercato del lavoro, ma nei confronti dei migranti è strumento di attuazione dell’esclusione dal contesto sociale, anche perché i servizi e le opportunità che vengono offerti al suo interno non hanno alcuna utilità dopo la detenzione, ma sono finalizzati alla sola garanzia dell’ordine disciplinare interno. [...] I “poveri cattivi” (L. Wacquant, 2006), ossia coloro che hanno scelto (E.van den Haag, 1975) il crimine rispetto alle condizioni di invisibilità e di neoschiavismo dettate dal mercato del lavoro, in carcere si avvicinano alle forme dello Stato sociale [o welfare, ndr], dato che hanno modo di vivere esperienze di scolarizzazione e a volte di avvicinarsi al lavoro. Tuttavia queste forme sono vuote, prive della sostanza, ossia della reale finalità di promuovere un’autonomia e un inserimento, nonché inadeguate e disinteressate al raggiungimento di tale obiettivo».
* Il sottoproletariato indica, nella tradizione teorica marxista, quella parte del proletariato che, sopravvivendo in condizioni di illegalità o di vagabondaggio, è priva di coscienza di classe.
Parafrasando: l’assistenza sanitaria e le esperienze lavorative e scolastiche offerte dal carcere sono più utili al mantenimento dell’ordine interno all’istituzione carceraria che all’emancipazione della persona, che una volta fuori potrebbe facilmente ritrovarsi nelle stesse condizioni di difficoltà iniziali. Soprattutto se il conto da saldare per la permanenza in carcere comporta l’adesione a contratti lavorativi vicini allo sfruttamento o - come spiegheremo tra poco - la creazione di un debito da estinguere una volta uscitә, il rischio è di estendere il regime detentivo anche oltre le mura e il tempo della pena.
Reti
Vivere in un istituto penitenziario non è gratis, tutt’altro. Secondo l’articolo 188 del Codice Penale, chi è condannatə alla detenzione è obbligatə a rimborsare allo Stato le spese per il proprio mantenimento in carcere: l’equivalente dei pasti (colazione, pranzo e cena) e del corredo personale (materasso, lenzuola, piatti, posate, ecc.), con uno sconto di un terzo rispetto al costo reale. Nel 2015, la quota da pagare è stata fissata a 3,62 euro giornalieri, per un totale mensile di 112,22 euro per ogni persona detenuta.
A chi lavora, dentro o fuori dal carcere, la quota viene sottratta direttamente dallo stipendio. Le possibilità di impiego sono però generalmente poche: in media, secondo le rilevazioni di Antigone, nel 2023 lavorava in carcere il 32% delle persone detenute e solo il 3% era assunto da datorə di lavoro esternə. Le prestazioni sono inoltre sottopagate - ⅓ in meno rispetto a quanto previsto dai contratti collettivi nazionali - e tipicamente di breve durata. Sono soggette a rotazione in particolar modo le posizioni lavorative alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, come l’addettә al sopravvitto (lo “spesino”), alle pulizie (lo “scopino”), alla distribuzione dei pasti (il “portavitto”) o alla compilazione delle domandine* (lo “scrivano”).
* "Domandina" è il termine infantilizzante usato comunemente in carcere per indicare la richiesta scritta della persona detenuta.
Chi non lavora, invece, riceve al termine della pena un’ingiunzione di pagamento: in poche parole, deve restituire allo Stato la spesa che è stata anticipata. A questo proposito, il giornalista Riccardo Arena ha intervistato su Radio Carcere Moamed, una persona che è stata ristretta per 18 mesi nella Casa di Reclusione di Opera, a Milano. Nonostante il vitto insufficiente, l’acqua calda sporadica, il materasso e il cuscino con la muffa, una volta uscito dal carcere, Moamed è stato sollecitato a pagare circa 120 euro per ogni mese di detenzione. Come se non bastasse, nelle spese sono stati considerati due mesi che in realtà avrebbe dovuto trascorrere fuori dall’istituto: la liberazione anticipata ha subito infatti un ritardo di 60 giorni, di cui lo Stato ha però chiesto il conto.
Abbiamo raccolto la testimonianza di Fabiana (nome di fantasia), attivista di Mamme in piazza per la libertà di dissenso, un comitato nato a Torino per riunire le madri di persone sottoposte a misure cautelari a seguito di manifestazioni antifasciste e di difesa del territorio. Il comitato promuove campagne di solidarietà nei confronti delle persone detenute, oltre a fornire sostegno materiale ed emotivo a chi ha una persona cara ristretta.
«Quanto offerto dal carcere è insufficiente da più punti di vista. Innanzitutto, le condizioni delle strutture detentive: da tempo è nota la presenza di scarafaggi nella casa circondariale Lorusso-Cutugno. Manca poi un sostegno psicologico-educativo adeguato, oltre a tutti quegli strumenti che consentono di mantenere una continuità con il mondo al di fuori del carcere, come - banalmente - una connessione web o i francobolli. Ad agosto, a Torino, il giornale non viene consegnato, per dire. Infine, a non essere forniti sono anche quei materiali che permettono la cura del proprio corpo: perché io non devo potermi tagliare i capelli in carcere o farmi la tinta? La domanda che dobbiamo porci è quale sia l’asticella che è stata fissata per il mantenimento della dignità delle persone».
La persona detenuta non può tenere con sé denaro contante, né in banconota né in moneta; ha a disposizione solo un libretto di conto corrente, ricaricabile dall’esterno tramite vaglia postale o deposito dallo sportello della sala colloqui. Anche in carcere i soldi sono importanti. Ma, a differenza di quanto accade fuori, le persone detenute non possono spendere quanto ritengono opportuno: nel 2013, infatti, una circolare del Dap ha stabilito che le uscite settimanali non devono superare i 150 euro e quelle mensili i 500. Entro i limiti di spesa concessi, bisogna quindi pagare la quota di mantenimento, le telefonate e tutto quell’insieme di prodotti - come generi alimentari, detersivi, cancelleria e sigarette - acquistabili attraverso un servizio gestito dall’amministrazione o da una società esterna e comunemente chiamato “sopravvitto”.
Tutti i beni in vendita sono elencati nel “Modello 72”, una lista consultabile nella bacheca della sezione*. Siccome l’offerta è però limitata, davanti alla persona detenuta che voglia avere un prodotto non incluso nel Modello 72 si aprono due strade: 1) inviare alla Direzione una “domandina”, senza la garanzia di ottenere risposta; 2) ricevere sostegno materiale dalla propria rete affettiva e familiare attraverso la consegna dei pacchi.
* La sezione è un’area del carcere, che spesso raccoglie persone detenute che hanno commesso reati dello stesso tipo o condividono esigenze specifiche.
F. racconta:
«Tu vai al colloquio e lasci all’entrata questa busta. Nella prima fase, un po’ umiliante, l’agente fa la verifica pezzo per pezzo di quello che hai messo dentro e dice “questo sì, questo no, questo sì, questo no”. La percezione è quella di una violazione delle tue cose, in un momento delicato come quello della visita. All’inizio non si conoscono alcune norme, come quella per cui il cibo deve essere preconfezionato e non può essere cucinato a casa. Non puoi fare tu i biscotti, ad esempio. Sei mortificato quando devi riportare a casa quello che avevi preparato. Poi bisogna assicurarsi che la busta non superi un certo peso: a me un’amica ha prestato una bilancia, anche perché basta che si metta dentro qualche libro da leggere e soltanto così si è già finita la quota di peso concessa».
Il quadro si complica ulteriormente se la persona ristretta è sprovvista di rete familiare o amicale, non lavora o la quantità di denaro in possesso prima dell’incarcerazione è modesta. Anche in carcere, poi, quasi niente è gratuito: le telefonate - uno dei pochi modi insieme ai colloqui per coltivare le relazioni affettive - hanno una tariffa, così come ha un prezzo farsi difendere da unә avvocatә.
Se è vero che per chi versa in condizioni economiche critiche esiste la possibilità di ottenere la remissione del debito*, nei fatti si tratta però di un diritto subordinato alla “regolare condotta”. Anche una sola sanzione disciplinare può dare infatti al Magistrato di Sorveglianza la facoltà di negare l’esenzione dalle spese legali e di mantenimento. Nel 2014, per esempio, il Tribunale di Sorveglianza di Avellino ha respinto l’istanza di un detenuto malgrado le sue risorse finanziarie fossero esigue: il richiedente non poteva vedere estinto il proprio debito con lo Stato perché durante la detenzione aveva commesso un’infrazione del regolamento.
*La remissione del debito è quando un creditore decide di annullare o cancellare tutto o parte del debito che una persona o un'azienda gli deve. Come se qualcunə, dopo aver prestato dei soldi, dicesse che non lə si deve più niente.
Anche nel caso della detenzione come misura cautelare* la condizione economica e di autonomia della persona ristretta viene messa a dura prova.
*Le misure cautelari sono provvedimenti che limitano la libertà personale di chi è indagatə o imputatə. Possono essere disposte da unə giudice quando si ritiene che la persona indagata o imputata possa compromettere le prove a suo carico, darsi alla fuga o commettere reati gravi.
Sempre F. racconta:
Prendiamo il caso della custodia in carcere come misura cautelare. Il detenuto perde la continuità del rapporto di lavoro, non percepisce più un reddito, ricadendo totalmente a carico delle famiglie. Anche quando vengono applicate misure cautelari non detentive (come gli arresti domiciliari, ndr), quelle persone non possono più lavorare, non possono più studiare: alcuni, in questa fase della loro vita, rischiano di tornare a una totale dipendenza proprio dalle persone da cui si erano emancipate. Trovo abbastanza improbabile che uno possa vivere dentro, per periodi anche brevi o medi, senza avere un qualche supporto dall’esterno, per qualsiasi cosa che non sia colazione, pranzo e cena.
Per concludere, abbiamo pensato di condividere uno schema che - per quanto approssimativo - mostra quanto la privazione della libertà possa manifestarsi come la tappa di un processo circolare, che per essere interrotto richiede una messa in discussione tanto del carcere quanto delle condizioni esterne a esso.
Qualche consiglio
Il libro di Valeria Verdolini - citato sopra - “L’istituzione reietta. Spazi e dinamiche del carcere in Italia” (Carocci, 2022), che indaga le funzioni del carcere nella nostra società.
In “Chav. Solidarietà coatta” (Alegre, 2020), D. Hunter racconta la sua giovinezza nel sottoproletariato di Nottingham, trascorsa tra riformatori, polizia e violenza.
L’autobiografia “Storia di mia vita” (Sellerio, 2024), di Janek Gorczyca, che vive a Roma da più di trent’anni in strada o in edifici occupati.
Gabriel Seroussi ha scritto per la newsletter Piombi di Associazione Closer un contributo in cui mostra l'intreccio tra il fenomeno "baby gang", il genere musicale trap e la situazione delle carceri minorili. Per farlo, ha ripercorso la storia - anche legale - di Zaccaria Mauhib, in arte Baby Gang.
Free Palestine
Nelle carceri israeliane, le persone palestinesi detenute sono sottoposte a continue violenze e torture, come testimoniato da numerose inchieste - tra cui questa, de il manifesto - e dal racconto del 37enne Moaziz Abayad, rilasciato dopo nove mesi di detenzione e in condizioni psico-fisiche molto gravi.
Muhammad Abu Salmiya, il direttore dell’ospedale al-Shifa di Gaza è stato liberato dopo sette mesi di detenzione in Israele. Riporta il Post: «Era stato arrestato con l'accusa di aver permesso l'insediamento di una base militare di Hamas nell'ospedale, ma l'esercito israeliano non ha mai fornito prove».
Grazie per essere arrivatә fin qui.
Se vi va di scriverci per feedback, commenti e segnalazioni in risposta a questa mail o tramite i nostri canali, a noi fa molto piacere.
A presto!
Mafalda, Nicolò, Gina ed Elisa
Per questo numero, un ringraziamento speciale va a F.