#18: Fare giornalismo dal carcere
Come il Dap e le direzioni ostacolano le redazioni delle persone detenute.

Ciao a tuttә!
Questo è il #18 di Fratture, la newsletter che una volta al mese vi racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Oggi parliamo dello stato di salute dei giornali che vengono realizzati all’interno delle carceri. Negli ultimi anni, infatti, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e le direzioni di alcuni istituti hanno limitato la libertà di espressione delle persone detenute. Abbiamo quindi intervistato Elton Kalica (Ristretti Orizzonti) e Armando Michelizza (L’Alba) per osservare più da vicino come funzionano le redazioni in carcere e quali effetti hanno avuto sulle loro attività i recenti sviluppi.
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Per oggi è tutto, iniziamo!
Breve storia della stampa carceraria
Nel 2009, l’istituto di ricerca Eurispes ha ricostruito all’interno del rapporto annuale l'evoluzione della stampa carceraria in Italia, che riprendiamo brevemente.
Nella seconda metà dell'Ottocento nascono i primi giornali sulle carceri, ma non nelle carceri. Non sono cioè ancora redatti dalle persone detenute. Nel 1865 viene fondato L'Effemeride Carceraria, che presto diventa una fonte autorevole di informazione sul sistema penitenziario italiano. Qualche anno più tardi, nel 1870, cambia nome in Rivista di discipline carcerarie e ospita i contributi di personaggi pubblici, e oggi controversi, come Cesare Lombroso. Dopo un passaggio di proprietà, il giornale si trasforma in uno strumento per fare beneficenza e nel 1925 chiude temporaneamente i battenti. Torna in circolazione nel 1931 con una nuova impostazione editoriale, allineata alla propaganda del regime fascista.
Nel frattempo, nel 1925, nasce La Domenica del Carcerato, redatta dalle persone detenute nel carcere romano di Regina Coeli e distribuita in tutti gli istituti di pena. Ispirata nella grafica alla Domenica del Corriere, ha finalità prevalentemente ricreative. Cessa le pubblicazioni nel 1930.
La prima rivista redatta stabilmente da persone detenute è La Grande Promessa, fondata nel 1951 nel carcere di Porto Azzurro, sull’Isola d’Elba. L’obiettivo è offrire uno spazio di espressione a chi è reclusə e stimolare la riflessione sull’ergastolo.

Fino al 1975, l’accesso all’informazione da parte dellə detenutə è soggetto a una rigida censura: i giornali vengono filtrati e i contenuti ritenuti sensibili eliminati. Negli anni Settanta, però, soprattutto grazie all’iniziativa di detenutə politicə, si sviluppano forme di contro-informazione, tramite bollettini e opuscoli autoprodotti all’interno degli istituti, come Col sangue agli occhi, giornale del Collettivo Carcere di Firenze. Tra le esperienze più significative nate negli anni successivi si ricordano L’Ora d’Aria (Rebibbia, 1982-1994) e Liberarsi dalla necessità del carcere (Pistoia, dal 1985).
Nel 1989, in alcune carceri come San Vittore (Milano) vengono create le “Sale Stampa”, ovvero stanze adibite alla realizzazione dei giornali. Da allora, numerose iniziative editoriali promosse da persone detenute hanno preso forma.
Attualmente, in Italia sono attive circa sessanta redazioni carcerarie, sebbene sia difficile determinarne un numero preciso: molte hanno vita breve, a causa della scarsità di fondi o della mobilità interna ai penitenziari, mentre altre danno vita unicamente a bollettini con circolazione interna.
Come si fa giornalismo carcerario: i casi di Ristretti Orizzonti e L’Alba
Ristretti Orizzonti nasce nel 1998 ed è una rivista diretta da Ornella Favero, pensata, scritta ed editata dalle persone detenute nella Casa di Reclusione di Padova e nell’Istituto Penale Femminile della Giudecca, a Venezia. Si tratta di uno dei progetti editoriali più consolidati nel panorama italiano: fino ad aprile 2025 sono stati realizzati 190 numeri. L’organizzazione di volontariato a cui si appoggia è Granello di Senape.
La redazione, al momento, è frequentata da una trentina di persone detenute e i contributi variano dagli articoli di giornale ai racconti autobiografici.
Avendo a disposizione un numero limitato di computer, Ristretti Orizzonti non può consentire la partecipazione di tutte le persone che ne fanno richiesta tramite domandina. L’unico criterio applicato dalla redazione è legato alla durata della pena: essendo un lavoro che richiede una certa costanza, viene privilegiatə chi deve scontare una pena lunga.
Ma come funziona una redazione in carcere? Quali possono essere le principali difficoltà?
Per provare a rispondere a queste domande abbiamo intervistato Elton Kalica, ex detenuto e redattore di Ristretti Orizzonti. Oggi continua a collaborare con la rivista ed è ricercatore presso il Dipartimento di sociologia dell'Università degli studi di Padova.
Il primo problema, spiega Kalica, è che «molti giornali aprono e chiudono secondo la velocità con cui si esaurisce il finanziamento del progetto: quando finisce il progetto, finisce il giornale, quindi sono poche le realtà consolidate». Ciò non consente infatti di costruire delle progettualità durature per le persone ristrette né un coordinamento stabile di riviste dal carcere.
Il secondo, invece, parla dell’obbligo di dipendere da altre realtà per fare informazione dal carcere: tutte le attività devono sempre essere mediate da un ente esterno.
Questo significa che, anche dove ci sarebbe il bisogno endogeno di realizzare un giornale, non è possibile farlo se non attendendo l’intervento di cooperative o associazioni esterne, che a loro volta dipendono da finanziamenti scarsi e precari. «È quindi inverosimile pensare che prenda vita una redazione autogestita».
Un altro tema riguarda la necessità di adattare le attività alle disponibilità dell’istituzione penitenziaria. Le fasce orarie in cui le persone detenute si possono muovere vanno dalle 9:00 alle 11:00 e poi dalle 13:00 alle 15:00.
Sempre Kalica racconta:
«Qualsiasi cosa si deve fare in queste sole due fasce orarie: i detenuti devono scegliere se andare a lavorare, se andare a scuola, se andare all'aria [all’aperto, ndr], se venire a Ristretti [in redazione, ndr] oppure se fare i corsi. Ogni volta che abbiamo chiesto di allargare gli orari ci è stato detto di no, perché combacerebbero con il cambio turno delle 16:00 [della Polizia penitenziaria, ndr]».
Ma dal carcere si può scrivere qualsiasi cosa?
Kalica ci spiega che le Direzioni di alcune carceri possono esigere una pre-lettura di quanto è stato scritto, azione che funge da censura in presenza di contenuti considerati scomodi. Questo non è però il caso di Ristretti Orizzonti: più che essere censurata, la redazione preferisce autocensurarsi in alcune occasioni, per evitare di incappare in querele o denunce per diffamazione.
Come racconta Kalica, questa scelta è motivata anche dal fatto che spesso, quando una persona detenuta arriva a Ristretti, il primo scritto assume i toni di uno «sfogatoio». Per la redazione è perciò importante trasformare il sentimento di frustrazione e rabbia in un articolo che validi l’esperienza vissuta, ponendola in relazione con il contesto sociale e gli attori che il detenuto incontra nella sua esperienza detentiva. Questo permette di produrre non solo informazione sulle storie e traiettorie di vita delle persone detenute, ma anche una conoscenza empirica sul mondo del carcere.
«Il punto è che si può mantenere in vita un'attività con una visione critica dell'istituzione carceraria, ma per cercare di garantirne la sopravvivenza non bisogna dare l'occasione di farti buttare fuori. La capacità da sviluppare è quella di riuscire a stare in equilibrio, di usare un linguaggio equilibrato: si possono fare le critiche, si possono sollevare le questioni, si può discutere senza eccessi. Adottiamo l’autocensura per mantenere più credibilità ed evitare di essere percepiti come vittimisti, ma nel frattempo cerchiamo di portare avanti tutte le battaglie che riteniamo giuste».
La priorità è quindi di tutelare quello che è molto di più di un semplice progetto editoriale: Ristretti Orizzonti è un luogo di aggregazione, confronto e condivisione di problematiche che consente di veicolare verso l’esterno le testimonianze dirette di chi si trova in carcere.
«È indispensabile, secondo me, avere la possibilità di fare informazione da dentro. Perché il carcere è un mondo chiuso, ci sono le mura che circondano il carcere: non servono solo per non far scappare i detenuti, servono anche perché il mondo fuori non riesca a vedere cosa succede dentro. I giornali come il nostro non sono perfetti, però portano fuori delle foto, delle immagini del carcere, spesso in modo critico, molto critico. È utile soprattutto perché il fatto che i detenuti scrivano e pubblichino funge come un momento conoscitivo anche per l’istituzione, che ha così l’occasione di confrontarsi con i detenuti su un piano di analisi e critica costruttiva collettivamente prodotta».
Anche la Casa Circondariale di Ivrea ospita, da venticinque anni, un giornale penitenziario, L’Alba, nato nel 2000 su iniziativa di Santino Beiletti. Al fondatore è dedicato il nome dell’associazione Assistenti volontari penitenziari (Avp) “Tino Beiletti”, che promuove diverse attività di volontariato in carcere, tra cui quella del giornale. Per conoscere la storia e il funzionamento de L’Alba, abbiamo intervistato l’attuale Presidente dell’Avp, Armando Michelizza. Riguardo agli obiettivi della redazione in carcere, Michelizza racconta:
«Si tratta di offrire uno spazio, un posto, una palestra, un momento in cui le persone detenute, anche con l'aiuto di persone che vengono da fuori, si incontrano, parlano, discutono, confrontano le idee e provano a esprimerle. Le esprimono, le scrivono e queste considerazioni, queste idee, queste osservazioni hanno un canale di diffusione all'esterno e nello stesso tempo hanno la funzione di portare all'esterno, far conoscere qualcosa di quelli che sono i problemi, di quelle che sono le aspettative, le speranze, le delusioni, all'esterno».
Così, ogni lunedì e ogni mercoledì pomeriggio, all’incirca dalle 16:00 alle 17:30, due o tre volontariə coordinano le attività di redazione, a cui partecipano solo persone detenute provenienti da sezioni cosiddette “comuni”; la partecipazione al giornale non è invece consentita a chi è ristretto nella sezione dei collaboratori di giustizia o dei protetti. In questi incontri, lə volontariə portano dei materiali su svariati temi, da cui poi scaturisce un dibattito collettivo a più puntate, che si condensa infine nella fase di scrittura.
L’importanza del dialogo è tale per cui Armando afferma:
«Alle volte ce lo diciamo, che la redazione assomiglia più a un laboratorio di scrittura, un posto di confronto, di idee e di scambi».
Una volta ultimati gli articoli, è necessario digitalizzare i testi e curarne la veste grafica, così da renderli fruibili (qui si può infatti trovare lo storico con i numeri del giornale). Fino a poco tempo fa, questa operazione veniva svolta internamente, nel laboratorio professionale di grafica; adesso invece è affidata a un volontario esterno.
Tra le attività della redazione, inoltre, vi sono numerosi eventi che tentano di rendere permeabile il contesto carcerario, favorendo incontri con altre realtà:
«La redazione è da gennaio a maggio anche sede di alcuni incontri con studenti e studentesse di un liceo scientifico locale che da almeno cinque o sei anni ha una convenzione per realizzare in carcere una parte di alternanza scuola-lavoro. Inoltre, la nostra associazione ha da tantissimi anni rapporti con diverse scuole medie, superiori e istituti tecnici del territorio. Cerchiamo di fare due o tre incontri all’anno, di solito in primavera, sul tema del carcere, accompagnandoci, quando riusciamo e adesso riusciamo abbastanza, con qualche persona che è stata detenuta».
Gli attacchi al giornalismo carcerario
«Far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato, come noi sappiamo trattare chi sta dietro a quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, credo sia una gioia: è sicuramente per il sottoscritto una intima gioia».
Con questi toni enfatici si esprimeva il Sottosegretario alla giustizia con delega al Dap, Andrea Delmastro Delle Vedove, nel novembre del 2024. In quella occasione, Delmastro stava presentando un nuovo veicolo in dotazione alla Polizia penitenziaria per trasportare le persone detenute in regime di Alta sicurezza (As) o 41bis.
«Vi ricordate le parole di Delmastro?», ci chiede Elton Kalica.
«Ecco, questa circolare va esattamente nella stessa direzione: vuole dimostrare di essere spietata nei confronti della criminalità organizzata. E quindi cosa fa? Interrompe le attività in un’ottica di sicurezza».
Kalica fa riferimento a una circolare del Dap diffusa nel febbraio del 2025 e firmata da Ernesto Napolillo, l’attuale Direttore dei detenuti e del trattamento, che rientrerebbe in quella che la cronista de il manifesto Eleonora Martini definisce «la sfera di influenza di Delmastro».
La circolare conferma l’obbligatorietà del modello custodiale chiuso per le persone detenute del circuito As, ovvero la previsione di non più di 8 ore fuori dalla cella per chi intende partecipare alle attività trattamentali. Secondo il Dap, però, in nessun caso può venire meno la «separazione logistica» tra i detenuti di As e quelli degli altri circuiti: si tratterebbe altrimenti di un «moltiplicatore di fenomeni criminali».
«Sembra molto generica», dice Kalica. «E invece poi va a colpire categorie ben specifiche di detenuti»: da una parte, le persone recluse in regime di As e iscritte a corsi universitari (come negli istituti penitenziari di Milano, Siena, Spoleto e Catanzaro); dall’altra, quelle detenute nello stesso circuito, ma nel carcere di Padova, e parti attive della redazione di Ristretti Orizzonti. «Questa circolare li ha colpiti tutti, li ha chiusi tutti».
Ristretti Orizzonti, racconta ancora Kalica, era l’unica rivista in Italia a coinvolgere anche il circuito di As. Cinque persone detenute partecipavano alle attività editoriali da 15 anni: «apportavano una prospettiva e una capacità riflessiva differenti, avendo alle spalle dai 30 ai 40 anni di detenzione».
Rappresentavano inoltre un punto di riferimento per i giovani adulti:
«Quando i ragazzi arrivavano in redazione, si trovavano fianco a fianco con uomini di settant’anni che avevano passato tutta la vita in carcere: si mettevano lì, vicino alla finestra, a fumare e a chiacchierare con loro. Si vedeva proprio un’impostazione diametralmente opposta: da una parte il giovane, ancora pieno di progetti e di idee, con la voglia di fare, di arricchirsi, di costruire qualcosa; dall’altra l’anziano, che ha vissuto quasi tutta la sua esistenza dietro le sbarre e cerca di dargli dei consigli. Ecco, c’era questo confronto, questo dialogo tra due mondi diversi: era una ricchezza per tutta la redazione. Adesso che loro non ci sono più, si sente questa mancanza, questa assenza».
A seguito della circolare, 35 docenti universitariə hanno firmato una lettera aperta a sostegno di Ristretti Orizzonti: chiedono al Dap di intervenire «in modo rapido e solerte per rimediare a questa scelta sbagliata e fuori dal perimetro costituzionale». Ma Kalica non è fiducioso: «È una partita difficile, quasi persa».
Non è comunque un caso isolato, quello di Ristretti Orizzonti. Neanche a Ivrea le cose vanno bene per il giornalismo carcerario.
«Ci sono state fatte ingoiare due cose, di cui francamente mi vergogno. Ma non sono ancora digerite: ci sono rimaste sul gozzo», racconta Armando Michelizza.
Nell’aprile del 2023 la direzione del carcere di Ivrea ha stabilito due condizioni affinché L’Alba potesse continuare le proprie attività editoriali.
La prima: gli articoli non possono essere firmati dalle persone detenute, devono rimanere anonimi.
Michelizza:
«Gli articoli scritti su un giornale regolarmente registrato presso il Tribunale [qual è il caso de L’Alba, ndr] possono consentire che un domani la persona detenuta possa citare questa esperienza per accedere a un certo tipo di lavoro o concorso. Negare la paternità attraverso l’anonimato è quindi una lesione di un ipotetico diritto».
La seconda: prima di andare in stampa, il giornale dev’essere sottoposto a una pre-lettura da parte della direzione, che può giudicare «inopportuni» certi articoli, ovvero censurarli.
«Un articolo che non è stato ammesso era ipercritico sulla situazione sanitaria in carcere. Diceva che in carcere devi crepare perché ti mandino in ospedale. Noi avevamo proposto una mediazione e avevamo convenuto con l’autore che sottolineare l’uso abnorme degli psicofarmaci sarebbe stato più aderente alla realtà e altrettanto forte come denuncia. Ma la direzione ha detto comunque di no. Insomma, anche questa sarebbe stata una critica non ammessa».
Oltre ai veri e propri articoli, anche i testi rap non sono giudicati «opportuni»:
«Adesso è stato trasferito, ma nella redazione c’era un rapper molto bravo. Naturalmente usava il linguaggio del rap. La direzione ci ha detto che non si poteva parlare di cose come la droga o dare immagini negative».
«Gli articoli - sintetizza Michelizza - devono essere acritici e ben educati».
Davanti a queste restrizioni alla libertà di espressione e di stampa, L’Alba ha presentato una segnalazione al Gruppo operativo locale, un coordinamento che riunisce i rappresentanti di vari enti territoriali. Ad oggi, però, non ha ancora ottenuto risposta.
Nel frattempo, L’Alba cerca di attenersi alle nuove regole imposte dalla direzione del carcere.
«Noi sappiamo bene che le chiavi delle celle non le abbiamo noi: abbiamo accettato queste condizioni perché avevamo la paura e la preoccupazione che ci chiudessero la redazione, privandoci di quei due pomeriggi che abbiamo a disposizione».
C’è infatti un precedente. Da novembre 2024 non è più attivo il secondo giornale che veniva realizzato nell’istituto di Ivrea, La Fenice, perché secondo la direzione dava una «immagine negativa» della vita in carcere. Dopo mesi di sospensione, La Fenice è stata chiusa.
I tentativi di limitare il lavoro redazionale in carcere non sono però circoscrivibili a Padova e Ivrea. Francesco Lo Piccolo, direttore della rivista dedicata al sistema penitenziario Voci di Dentro, ha raccontato in un’intervista a Professione Reporter che casi analoghi si sono registrati nelle carceri di Trento, Lodi e Rebibbia (Roma). Anche Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, ha espresso «perplessità» a fronte degli «interventi per imporre o vietare la sottoscrizione dei contributi di redattori detenuti alla “stampa” nel carcere, o sulla lettura preventiva di quei contributi».
Lo scorso aprile, un coordinamento che riunisce oltre 20 riviste penitenziarie ha rivolto una lettera aperta al Dap: chiede «rispetto della libertà di espressione, autorizzazione all’uso di tecnologie, tempi rapidi nelle risposte, adeguata considerazione dell’attività svolta dai volontari operatori della comunicazione».
Alcuni consigli
Gli archivi digitali de L’Alba e di Ristretti Orizzonti.
“Della mia anima ne farò un’isola” (2024): il podcast realizzato dall’Avp “Tino Beiletti” con i collaboratori di giustizia del carcere di Ivrea a partire dal libro “Fine pena: ora” di Elvio Fassone (Sellerio, 2015).
“Io ero il milanese” (Rai Play, 2022): il podcast di Mauro Pescio che racconta la vita di Lorenzo S., ex rapinatore che ha transitato per la redazione di Ristretti Orizzonti. Dal 2023 “Io ero il milanese” è anche un libro, scritto da Mauro Pescio e Lorenzo S. per la casa editrice Mondadori.
“Ristretti Orizzonti, la rivista dei detenuti di Padova” (2018): il servizio andato in onda nel programma Quante Storie e disponibile su Rai Play.
Free Palestine
Il giornalista palestinese Nasser Al-Lahham è stato arrestato dalle autorità israeliane senza che contro di lui sia stata formalizzata alcuna accusa: il suo è un esempio di detenzione amministrativa. Nel corso dell’arresto, l’abitazione di Al-Lahham è stata presa d’assalto e saccheggiata. Lo raccontano un articolo di Middle East Eye e un post su Instagram del fotoreporter palestinese Motaz Azaiza.
Amnesty International ha comunicato che il medico palestinese Hussam Abu Safiya, che dirigeva uno degli ultimi ospedali rimasti in piedi nel Nord di Gaza, è attualmente detenuto in un carcere della Cisgiordania occupata. Tre settimane fa, riferisce l’avvocata Gheed Kassem, è stato picchiato dagli agenti di sicurezza della prigione e al momento è confinato in una cella sotterranea, dove le cure mediche sono inesistenti e l’alimentazione è scarsa. Amnesty ha lanciato un appello: si può firmare a questo link.
Grazie per essere arrivatə fin qui.
Se vi va di scriverci per feedback, commenti e segnalazioni in risposta a questa mail o tramite i nostri canali, a noi fa molto piacere.
A presto!
Mafalda, Nicolò, Gina ed Elisa
Un ringraziamento speciale per questo numero va a Elton Kalica e Armando Michelizza.
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Ma che servizio prezioso che avete fatto. Viviamo in una epoca in cui il cattivismo ci ha fatto dimenticare che il carcere ha una funzione non soltanto punitiva. Ma in un Paese in cui non si riesce a pensare al domani, preoccuparsi di queste persone e di come torneranno nella vita sociale (in che condizioni umane e psicologiche) e’ cosa rara.