#16: Prigioni Elettroniche
Intervista alla ricercatrice Perla Allegri: le nuove tecnologie di sorveglianza.

Ciao a tuttә!
Questo è il #16 di Fratture, la newsletter che una volta al mese vi racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Oggi vi proponiamo un’intervista a Perla Allegri, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, docente di Sociologia del diritto all’Università del Piemonte Orientale e membro dell’Osservatorio nazionale di Antigone.
La nostra conversazione muove dal suo ultimo libro, pubblicato nel 2024 da Pacini Editore: Prigioni elettroniche. Dal mass imprisonment all’e-prisonment: evoluzioni del controllo elettronico nella penalità.
Si tratta di un lavoro prezioso, una guida al presente e al futuro della sorveglianza, per comprenderla meglio e imparare a farci i conti. Perla Allegri mostra come quello che all'apparenza può sembrare un efficace strumento per ovviare alla detenzione, il braccialetto elettronico, possa non solo generare l'effetto contrario, ma anche aumentare la pervasività del controllo sociale.
Nell’introduzione all’intervista troverete un riassunto del libro, in modo tale da potervi orientare con più facilità tra i contenuti di questo numero.
Infine, vi ricordiamo che, se vi piace Fratture e ne avete la possibilità, potete sostenerci economicamente su Ko-Fi, con una donazione singola o in forma di abbonamento mensile.
Per oggi è tutto, iniziamo!
Introduzione
Il braccialetto elettronico rappresenta una misura punitiva nata con un obiettivo specifico: diminuire il numero di persone detenute all’interno degli istituti penitenziari in Italia e, quindi, rispondere all’enorme problema del sovraffollamento. Un obiettivo, questo, che non è stato raggiunto: invece di determinare una riduzione della popolazione carceraria, l’utilizzo del braccialetto elettronico ha contribuito a portare più persone all’interno del circuito penale. In più, la produzione e il monitoraggio dei braccialetti elettronici hanno un costo molto elevato e rappresentano un grosso business (o affare) per le società private a cui vengono delegate queste funzioni. Si potrebbe allora sperare che questo regime di sorveglianza abbia condotto quantomeno a una riduzione del tasso di recidiva, ma non è così: la percentuale si abbassa soltanto quando al braccialetto elettronico si accompagna un percorso educativo. Un altro punto riguarda poi l’espansione del raggio di controllo all’interno della sfera privata: il braccialetto elettronico si infiltra nello spazio privato, domestico e quotidiano, con ricadute negative non solo sul singolo individuo interessato, ma anche sulla sua famiglia e la sua rete relazionale. All’interno del libro vengono presentati due casi di studio, relativi al Tribunale di Reggio Calabria e a quello di Torino: Allegri, attraverso l’analisi di documenti e interviste ad alcuni Gip (Giudici per le indagini preliminari) e Gup (Giudici per le udienze preliminari), indaga le loro percezioni e opinioni rispetto all’efficacia del braccialetto elettronico, individuando inoltre i fattori che influenzano la decisione di applicare o meno questa misura. La ricerca propone quindi una riflessione critica su questa nuova era della penalità, partecipando al dibattito sui rischi e le implicazioni etiche delle nuove forme punitive.
Partiamo: ti va di presentarti e di raccontarci qual è stata la genesi del tuo lavoro di ricerca?
Certo! Sono assegnista di ricerca al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e da anni mi occupo di controllo sociale, privazione della libertà e superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Dopo la laurea in Giurisprudenza e una breve parentesi in uno studio legale, ho conseguito il dottorato in “Diritti e Istituzioni” con una tesi in Sociologia del diritto. Quando ho iniziato la mia tesi di dottorato, l'ipotesi di ricerca che mi era stata proposta dal tutor era di capire la funzionalità di internet in carcere. Avendo però un approccio anticorrezionalista (*), ho preferito orientare la ricerca sui nuovi sistemi di sorveglianza elettronica. Da quel momento, quella è diventata la mia tesi, che - come sempre - è stata un po' odi et amo: da un lato, infatti, mi ha immersa in un mondo di tecnologie che non mi è affine e non mi ha mai attirato particolarmente; dall'altro, e questo era di mio interesse, mi ha consentito di occuparmi di alternative alla detenzione.
(*) L'anticorrezionalismo è una corrente di pensiero che contesta l’efficacia e la legittimità del carcere e delle istituzioni che dichiarano di voler “correggere” l’individuo. Sostiene che tali istituzioni non rieduchino, ma esercitino controllo sociale e rafforzino le disuguaglianze.
Mi sono scontrata con un campo che nei nostri sistemi era del tutto sconosciuto, perché di sorveglianza elettronica se ne parlava soprattutto nei Paesi di common law, quindi nei Paesi anglosassoni che hanno dato le origini alla sorveglianza elettronica. Nel 2017, quando è iniziato il mio dottorato, era entrata da poco in vigore una delle prime normative per l'introduzione dei braccialetti elettronici in Italia: questi dispositivi, però, erano ancora poco utilizzati, non era stata prodotta letteratura su cui studiare e c'era pochissima trasparenza al riguardo, cosa che purtroppo permane tutt’oggi.
In mancanza di dati quantitativi e per mio interesse personale, ho allora deciso di fare una ricerca di tipo qualitativo per capire come l'introduzione di un nuovo modo di punire agisse sul processo decisionale dei giudici. Tuttavia, fare tante interviste non era possibile perché gli stessi giudici non conoscevano bene il tema. Ho quindi intrapreso uno studio di caso su due tribunali, uno situato nel Nord Italia e l’altro nel Sud Italia, rispettivamente il Tribunale di Torino e il Tribunale di Reggio Calabria. Questa scelta era dovuta a due ordini di ragioni. Primo: in Piemonte ero vincitrice della borsa di dottorato, in Calabria è nata invece parte della mia famiglia e dunque avevo già delle conoscenze per l’accesso al campo. Secondo: avevo intenzione di indagare come due strutture poste in due lati geograficamente opposti del Paese, che quindi gestiscono reati diversi, potessero approcciarsi alla sorveglianza elettronica. Questa è stata l'origine della mia ricerca.
La sorveglianza elettronica è stata presentata come uno strumento per alleggerire il peso del sovraffollamento in carcere e per trovare delle vie alternative alla detenzione. Come spieghi nel tuo libro, però, la realtà è stata invece un’altra. Perché?
Questa era proprio l'ipotesi di partenza della mia ricerca: volevo capire quale fosse l'impatto di un'alternativa alla detenzione sui numeri della carcerazione. La sorveglianza elettronica è nata con diversi obiettivi, non solo quello di ridurre i numeri della detenzione. Aveva il proposito di diminuire i controlli nei confronti delle persone agli arresti domiciliari semplici, che devono essere controllate fisicamente dalle forze di polizia presso il loro domicilio. Un altro scopo era poi contenere gli elevati costi di mantenimento delle persone detenute in carcere: l’applicazione di un dispositivo elettronico permette di sorvegliare una persona 24 ore al giorno con costi contenuti, dal momento che non serve pagare una struttura, dei posti letto o il personale. Facendo un rapido bilancio, sulla questione di alleggerire le forze dell'ordine e quella di natura economica sicuramente si può parlare di obiettivi in parte raggiunti. Per quanto riguarda la diminuzione dei numeri della detenzione, però, questa sicuramente non è avvenuta, né in Italia né in altrove.
Oggi noi abbiamo oltre 62 mila persone recluse negli istituti penitenziari e le persone che sono sottoposte a qualche forma di controllo penale esterno sono oltre 110 mila. Prima i numeri non erano così alti: sono esplosi dopo il 2014 con l’introduzione della messa alla prova. Ad ogni modo, quando si inserisce un'alternativa alla detenzione, il numero delle persone detenute dovrebbe scendere e il numero delle persone con misure alternative dovrebbe leggermente salire. Bene, queste due linee sono andate tutte e due salendo: sono cioè aumentate sia le persone detenute che quelle con misure alternative. Perché? Perché la Sociologia del diritto ci spiega come, di fatto, introdurre nuove forme alternative al carcere non faccia diminuire i numeri delle persone recluse ma, anzi, molto spesso produca un aumento del numero di persone all'interno del campo penale. Stanley Cohen ha definito questo fenomeno “net widening”, ovvero allargamento della rete penale.
Prima dell’introduzione del braccialetto elettronico, se non sussistevano il rischio di reiterazione del reato, di fuga o di inquinamento delle prove, si poteva attendere il primo grado di giudizio (*) al di fuori del carcere. Una volta introdotto il braccialetto elettronico, le cose sono cambiate. Quando i giudici hanno dovuto decidere se tenere un soggetto in carcere, a casa senza controllo elettronico oppure a casa ma monitorato 24 ore al giorno, c'è stata una sorta di slancio nello scegliere quest'ultima opzione. Dava una tale sicurezza che il codice di procedura penale è stato modificato e il braccialetto elettronico è diventato la figura cardine della custodia cautelare. Il problema è che a un certo punto, nel sistema italiano, questi dispositivi erano pochi, quindi il sistema era sempre saturo. Allo stesso tempo, però, in assenza di esigenze cautelari talmente gravi da giustificare la detenzione in carcere, i giudici erano obbligati a disporre l’arresto domiciliare con il braccialetto elettronico.
(*) Nel sistema giudiziario italiano ci sono tre gradi di giudizio: il primo, in cui si esamina il caso e si emette una sentenza; il secondo (Appello), in cui si riesamina la decisione; il terzo (Cassazione), che verifica solo la correttezza giuridica del processo.
In sintesi, di fronte alla carenza di dispositivi, o i giudici rafforzavano le esigenze cautelari e disponevano la carcerazione o decidevano di applicare gli arresti domiciliari semplici. Il dato è che oggi le persone sottoposte a controllo sono molte di più rispetto a quelle che erano in passato, malgrado la norma fosse stata introdotta con lo scopo opposto: diminuire i numeri della detenzione. Quindi, ecco l’effetto perverso del braccialetto elettronico: incarcerare gruppi di persone che altrimenti non sarebbero state incarcerate e mantenerne in prigione delle altre che, senza questa norma, avrebbero magari potuto accedere agli arresti domiciliari semplici. E intanto il numero di braccialetti elettronici è aumentato: dai 2, 3, 4 mila applicativi alle circa 10 mila persone oggi sottoposte a dispositivo, di cui 4.500 sottoposte a dispositivi anti-stalking.
Tralasciamo per un attimo l’inefficacia di questi dispositivi: quali sono le ripercussioni dei braccialetti elettronici sulla sfera domestica e, più in generale, sulla vita quotidiana di chi li indossa?
Faccio un passo indietro. La sorveglianza elettronica affonda le sue radici teoriche in quello che è stato il concetto di “panopticon” (*): un modello di sorveglianza centralizzato e dotato di una figura autoritaria, la guardia, che esercita un controllo sull’individuo e lo induce ad autodisciplinarsi attraverso il suo essere esposto a questa continua visibilità. L'obiettivo era quindi che il soggetto divenisse il sorvegliante di sé stesso. Alcuni autori come Thomas Mathiesen hanno invece definito la sorveglianza elettronica come un sistema sinottico, e non panottico. Nel sistema sinottico, il controllo non è più esercitato da una figura, ma dalla tecnologia, che esercita un controllo costante. Non c’è più un controllore esterno, se non questo apparecchio, e non c'è più nessuno che impone degli ordini: questi sono autoimposti dalla tecnologia.
(*) Modello di sorveglianza ideato da Jeremy Bentham, prevede un'architettura circolare in cui un singolo guardiano può osservare tutte le persone in prigionia senza che queste possano sapere se in quel momento siano effettivamente sorvegliate o no.

Qual è dunque la percezione di chi sta scontando una pena in casa con un braccialetto elettronico? Spesso si pensa che il braccialetto elettronico sia un dispositivo che ti permette di muoverti, ma in realtà esistono pochissimi dispositivi di questo tipo. Se tutti i cellulari hanno un Gps, per i braccialetti elettronici non è così: quasi tutti funzionano con il meccanismo della radiofrequenza. Ti consegnano un dispositivo, ti perimetrano l’abitazione e installano una sorta di telefono in casa; il telefono e il dispositivo si parlano e quando tu esci da quel perimetro suona un allarme. In questo caso, di fatto, perdi la libertà dentro casa tua. Qualcuno potrebbe dire: “Beh, però sei a casa e non sei in carcere”. Semplicemente, però, si tratta di un altro tipo di pain (dolore, ndr): quello che viene chiamato pain of imprisonment, cioè il dolore dell'essere in carcere, è invece qua chiamato pain of surveillance, cioè il dolore della sorveglianza.
Innanzitutto, le persone sono sottoposte a un controllo costante e, nel momento in cui scatta l’allarme, le forze dell'ordine sono chiamate a intervenire in uno spazio che non è più loro, come può esserlo l'istituzione penitenziaria; al contrario, si tratta di uno spazio privato, quello della casa. Il fatto che le forze dell’ordine possano intervenire quanto e quando vogliono comporta una serie di limitazioni personali che ricadono anche sulle persone conviventi. La sorveglianza elettronica mina la privacy perché di fatto crea un ambiente che non è più un ambiente casalingo. Ciò che è casa non lo è più perché diventa uno spazio di sorveglianza e di controllo. La sorveglianza non incide più solo sulla tua persona ma anche sulle persone che sono con te e quindi quella che una volta era camera tua diviene una cella elettronica, perché tu lì dentro, soprattutto quando si usa la radiofrequenza, devi stare e di lì non ti ci puoi muovere.
L'altro dato riguarda un altro grosso limite e cioè quello della stigmatizzazione. Molto spesso si parla di diritto all'oblio per le persone che sono state in carcere. Infatti, molte persone che sono state detenute, una volta uscite e quindi dopo aver scontato la loro pena, si vedono perseguitate dal loro reato: se qualcuno fa una ricerca su Google con i loro nomi, il loro passato è ancora presente. Ecco, nella sorveglianza elettronica i dispositivi - per quanto discreti - si vedono: se indossi un pantalone stretto, quel dispositivo si vede, quindi il rischio di stigmatizzazione è alto. Perché, di fatto, quando sei in carcere nessuno ti vede: a meno che il tuo nome non sia comparso sul giornale, le persone non necessariamente sanno che tu sei in carcere. Diverso è se tu vai a fare la spesa e indossi il dispositivo elettronico. Si vede non solo d'estate, se ti metti i pantaloncini corti, ma anche d'inverno, perché è una cavigliera elettronica con un dispositivo abbastanza grosso attaccato alla caviglia. Nel momento in cui tu incontri una persona che ha un braccialetto elettronico al piede, sai già che quella persona nella tua testa è una persona deviante, un criminale. Questi secondo me sono i rischi maggiori, tant’è vero che sono state diverse le raccomandazioni avanzate anche dal Consiglio d'Europa per cercare in qualche modo di limitare gli effetti negativi.
Almeno sulla carta, il braccialetto elettronico non è obbligatorio: la persona dovrebbe sempre potersi rifiutare di indossarlo poiché la sua applicazione è vincolata al rilascio del consenso. Quanto è però davvero libero questo consenso?
Sì, le persone, quando viene loro imposto il braccialetto elettronico, devono dare il consenso: come immaginerete, questo, però, è un consenso che non è dato in un contesto libero, perché la norma ci dice che chi non accetta l'applicazione del braccialetto deve andare in carcere in misura cautelare. Se una persona decide di rifiutare, ad esempio perché non vuole indossare il braccialetto a casa propria, dove vive con la famiglia, di fatto si troverà a dover affrontare il carcere. Questo implica che il consenso, formalmente previsto come libero, in realtà non lo è, perché condizionato dal rischio di essere incarcerati. Inoltre, vi sono abitazioni in cui la copertura del segnale è assente, e in questi casi le persone sono automaticamente escluse dall'applicazione di questa misura. La norma, in tal senso, risulta iniqua. In generale, gli arresti domiciliari presentano una certa iniquità, poiché chi non ha una casa non può usufruirne, e qui torna il grande tema di come le risorse personali e socio-relazionali incidano sul modo in cui le persone scontano la pena.
Nel libro, inoltre, sollevi il problema della “commercializzazione dei poteri di controllo penale”, ovvero di come quelle prerogative che prima appartenevano esclusivamente allo Stato stiano venendo delegate a delle società private.
Sì, esatto. Noi veniamo da un sistema fondato sull’idea che il controllo penale debba essere esercitato dallo Stato per proteggere la comunità dalla violenza dei singoli. Risulta quindi difficile accettare che altri enti, diversi dallo Stato, possano esercitare forme di controllo sul sistema penale, avendo peraltro delle implicazioni anche economiche. I braccialetti elettronici sono stati introdotti nel nostro sistema a partire dagli anni 2000. All’epoca, la gestione era stata affidata a Telecom: non perché avesse vinto un bando, visto che una gara pubblica non era stata nemmeno fatta, ma perché si trattava della principale società di telecomunicazioni italiana del tempo. Telecom avrebbe dovuto produrre migliaia di dispositivi, ma alla fine ne realizzò poco meno di un centinaio. Il tutto a un costo di 100 milioni di euro all’anno. Perché questa cifra? Non per i dispositivi in sé, ma per tutto quello che vi era stato costruito intorno. Era stata realizzata la Beti, una centrale tecnica operativa che ho visitato personalmente a Roma e che era gestita da tecnici della Telecom. Era lì che arrivavano le segnalazioni dalle questure di tutta Italia. Il problema è che per anni nessuno si è preoccupato del fatto che pagavamo oltre 100 milioni di euro l’anno a Telecom, ma Telecom cosa dava in cambio? C'erano solo 4 città coinvolte nella sperimentazione – Torino, Firenze, Roma e Catania – e i braccialetti elettronici effettivamente attivi erano appena 55. Fino al 2015, quando poi c’è stata una modifica normativa, abbiamo avuto questi numeri ridicoli, a fronte di spese enormi.
Nel 2018 Fastweb si è aggiudicata il nuovo bando, ma la situazione non è migliorata. Fastweb aveva promesso di produrre fino a 1000 dispositivi al mese, con un sistema di maggiorazione fino a 1200. Se fosse andata così, avremmo almeno risolto il problema del sovraffollamento carcerario legato alla custodia cautelare: ancora oggi, il 27% delle 62.000 persone detenute si trova in carcere in attesa di giudizio. E invece no, per anni nulla è cambiato. Fastweb, a un certo punto, ha detto che i giudici non richiedevano abbastanza dispositivi, ma i giudici non li richiedevano perché i dispositivi erano pochi e procurarsene di nuovi era complicato. Si era creato un circolo vizioso: pochi dispositivi, poca richiesta, e intanto le persone continuavano a restare in carcere o agli arresti domiciliari con quei pochi braccialetti disponibili.
Poi sono arrivate due nuove leggi: il Codice Rosso e la Legge Roccella. Entrambe hanno aumentato il numero di casi in cui si possono applicare i braccialetti elettronici. Il problema, però, rimane. Come dicevo prima, ogni installazione prevede l’intervento di tecnici insieme alla polizia. Questo, inevitabilmente, significa che esiste un interesse economico a far crescere il numero di dispositivi, e quindi un incentivo a creare nuove leggi che ne prevedano l’utilizzo. Ed è esattamente ciò che è accaduto con la Legge Roccella. Il paradosso, però, è che se poi le aziende non riescono a produrre abbastanza dispositivi, si crea un disservizio gravissimo nel sistema di giustizia. Perché se io, azienda, dico: “Sono in grado di consegnarveli”; e il legislatore si fida e costruisce su questa promessa una norma, ma poi quei dispositivi non ci sono, allora la responsabilità ricade sui giudici. E cosa possono fare i giudici in questi casi? Due cose: o inaspriscono le misure cautelari, mandando le persone in carcere, oppure – e alcuni l’hanno fatto come forma di protesta – decidono di non applicare la misura e optano per gli arresti domiciliari semplici. Così, però, si crea una distorsione enorme: una norma pensata per garantire sicurezza e alternative al carcere finisce per non funzionare, per colpa di una filiera produttiva inefficiente.
Bisogna stare molto attenti alle dinamiche di commercializzazione nel nostro Paese. Non tanto - o non solo - perché il potere punitivo spetta sempre e comunque allo Stato, ma perché, come vi dicevo, esistono situazioni che mostrano quanto possano diventare pericolose certe logiche di mercato applicate alla giustizia. Un episodio gravissimo è avvenuto in Inghilterra. G4S, la società che si occupava dei dispositivi elettronici, per anni ha falsificato alcuni dati: nei report statistici gonfiava i numeri delle applicazioni dei braccialetti per mostrare che il sistema funzionava e, quindi, convincere il legislatore a continuare a fare affidamento sui suoi prodotti. In alcuni casi è arrivata perfino a dichiarare di aver applicato dispositivi a persone che, in realtà, erano già decedute. La cosa più preoccupante, però, è che gli stessi operatori di G4S erano quelli che, in Inghilterra, si occupavano dei controlli nelle abitazioni insieme alla polizia. Capite bene che non può essere la stessa azienda a produrre i dispositivi e poi a gestirne anche il controllo. È una questione basilare: il controllo non può essere affidato a chi ha un interesse economico nel vendere il prodotto. Altrimenti rischiamo che le logiche di mercato condizionino anche l’attuazione delle misure penali. Purtroppo è inutile negarlo: la legislazione è sempre più legata a logiche di profitto. Diventa veramente grave quando si privatizzano funzioni che, per loro natura, dovrebbero restare pubbliche. Punire non deve diventare un affare. In parte, lo è già come ci insegnava il business penitenziario teorizzato da Nils Christie, ma non possiamo permettere che diventi sistematico.
I casi di studio, dicevamo prima, sono il Tribunale di Torino e il Tribunale di Reggio Calabria: cosa li distingue sul piano della sorveglianza elettronica?
Faccio un punto sulla metodologia e poi entro nel merito. Spesso sembra che si faccia ricerca qualitativa solo quando mancano i dati quantitativi, invece non è così. I dati quantitativi servono, certo, perché ti danno una fotografia del fenomeno. Tuttavia, quei dati vanno fatti parlare, e questo lo si fa attraverso la ricerca qualitativa. Io non sono una "quantitativa", non è il mio campo. Credo davvero che la ricerca qualitativa abbia una funzione fondamentale: evidenzia gli aspetti dissimulati. Parlare con i giudici, capire con loro quali sono le criticità nel loro processo decisionale, scoprirne anche la forma mentis, i pregiudizi, il modo in cui decidono in assenza di dispositivi, è stato per me un elemento imprescindibile per l’analisi. Ho intervistato anche gli operatori di Telecom perché all’epoca gestivano ancora loro i dispositivi, anche se la decisione finale sull’applicazione del braccialetto spettava comunque al giudice.
È stato molto interessante confrontare due tribunali che operano in aree geograficamente diverse, con fenomeni criminali differenti, proprio per capire come cambia la cultura giuridica. Per esempio, un elemento che mi ha colpito è come viene valutata la presenza di una rete familiare. Nei tribunali del Nord Italia, se una persona ha una casa, una madre, una compagna, un fratello, questo aspetto viene visto positivamente, perché significa che qualcuno si può prendere cura della persona, e questo favorisce l’applicazione del braccialetto elettronico. La stessa dinamica, ma al Sud Italia, in contesti legati alla criminalità organizzata, si ribalta completamente. In questo caso, la presenza di una rete familiare o relazionale diventa un ostacolo. Il timore è che la persona, tornando a casa, mantenga i legami con l’associazione criminale. Per questo, bisogna allontanarla dal suo contesto. Questo fa capire come la stessa situazione - ovvero avere una famiglia, una casa, una rete - venga letta in maniera opposta a seconda del territorio, della storia criminale e sociale del luogo. Lo stesso vale per le misure alternative. Al Nord, spesso è difficile applicarle perché molte persone non hanno una famiglia o un posto dove tornare. In questi casi, sono le associazioni di volontariato che si offrono di ospitarle. Al Sud, invece, succede meno, perché c’è quasi sempre una famiglia o una rete che riaccoglie.
In generale, tra le variabili che influenzano maggiormente le decisioni dei giudici nel concedere o meno il braccialetto elettronico, riporti la condizione di straniero come una tra le più rilevanti. Perché?
Diciamo che la questione della dimora e quella dello status di persona straniera sono due temi emersi con particolare forza dalle interviste. Molto spesso ho riscontrato un uso disinvolto e poco preciso di termini come "immigrato", "straniero", "irregolare", "clandestino", usati quasi come sinonimi. In diverse delle interviste ai giudici è emersa una considerazione del soggetto extracomunitario come se fosse di per sé inaffidabile. Frasi come “E chi lo prende più? E dove finisce?” restituivano chiaramente questa visione.
In pratica, il solo fatto di essere straniero, in particolare extracomunitario, rappresenta già uno svantaggio strutturale. Può sembrare un’esagerazione, ma in molti casi essere un soggetto immigrato coincide con una sorta di presunzione di colpevolezza o, almeno, con una prognosi negativa: “Se ha commesso un reato una volta, lo rifarà”. Questa visione si accompagna ad altre due condizioni spesso assenti nei percorsi migratori: un domicilio certo e una situazione lavorativa stabile. L’assenza di queste due condizioni porta spesso a considerare i soggetti stranieri più pericolosi rispetto ad altri. Per questo motivo, le misure cautelari sono state spesso aggravate, con la giustificazione di un maggiore rischio di reiterazione del reato o, più frequentemente, di pericolo di fuga: non era tanto l’inquinamento delle prove a preoccupare, quanto l’idea che la persona potesse scomparire.
In questo senso, la misura più frequentemente applicata agli imputati stranieri è il carcere. Ricordo, ad esempio, un’intervista che mi è rimasta impressa: un giudice raccontava di un imputato rom che viveva in un campo e che, tramite il suo avvocato, aveva richiesto gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico. La risposta del giudice era stata che, vivendo in una roulotte con le ruote, la misura non poteva essere concessa. Alla fine, per accettare la richiesta, era stato chiesto che venissero rimosse le ruote del mezzo. Questo episodio, a suo modo paradossale, restituisce bene l’idea di fondo: la diffidenza strutturale ad applicare misure meno afflittive alle persone straniere. Tutto ciò si riflette anche nei numeri. Tra le persone che scontano la pena fuori dal carcere, solo il 20% è straniero, mentre tra le persone detenute la percentuale di stranieri arriva al 33%. Questo significa che gli stranieri sono sovrarappresentati in carcere rispetto alla loro presenza tra chi accede a misure alternative e conferma che esiste un problema strutturale nel modo in cui vengono trattati all’interno del sistema giudiziario.
I braccialetti elettronici trovano applicazione anche nel contrasto alla violenza di genere. In base alla Legge Roccella, infatti, la potenziale vittima di aggressione viene dotata di un dispositivo in grado di rilevare la presenza dell’aggressore nelle vicinanze e di generare immediatamente un allarme verso il Centro di monitoraggio elettronico. Sulla base della tua ricerca, hai potuto valutare l’efficacia di questo funzionamento?
Allora, con il cosiddetto Codice Rosso e più recentemente con la Legge Roccella, è stato introdotto un sistema di misure cautelari che viene spesso chiamato genericamente “anti-stalking”. In realtà, si tratta di divieti di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, accompagnati da un apparato tecnologico che sulla carta dovrebbe garantire una maggiore sicurezza. Il sistema si basa su tre dispositivi distinti. Il primo è il classico braccialetto elettronico, che viene applicato alla caviglia della persona a cui è stato imposto il divieto. Il secondo è un dispositivo mobile, simile a un telefono, dotato di Gps, che deve essere tenuto sempre con sé dalla stessa persona. Questo crea già una distorsione evidente: se banalmente il dispositivo mobile si trova in una stanza diversa rispetto a quella in cui si trova la persona, i dati trasmessi non sono attendibili. Eppure, inserire un Gps direttamente nel braccialetto non è un’impresa impossibile dal punto di vista tecnologico. Il terzo dispositivo, chiamato Vtu, viene consegnato alla persona offesa. È importante ricordare che, in questa fase, si parla ancora di presunti autori di reato e di persone offese, non di colpevoli e vittime. Il sistema impone a entrambe le persone di ricaricare quotidianamente i dispositivi, almeno una o due volte al giorno, pena la perdita del segnale.
Questo meccanismo solleva diverse criticità. Innanzitutto, si affida una parte della responsabilità alla persona offesa, che dovrebbe trarre un senso di sicurezza dalla possibilità di sapere dove si trovi il presunto aggressore. In realtà, questa percezione di sicurezza è spesso illusoria. Le forze dell’ordine, infatti, ricevono semplicemente una segnalazione generica quando un dispositivo si sta scaricando o quando c’è un avvicinamento non autorizzato, ma non sono supportate da operatori formati in materia di violenza di genere. In Paesi come la Spagna esiste invece un sistema integrato: se il dispositivo rileva una situazione di rischio, la persona viene immediatamente contattata da un operatore che la guida in tempo reale. In Italia, questo non accade. Le forze dell’ordine sono sole nella gestione di un numero crescente di dispositivi, passati da poche migliaia a oltre 10 mila, di cui circa 4.500 riguardano casi di stalking. Ogni dispositivo può attivare allarmi più volte al giorno, spesso per motivi banali come una batteria scarica, causando un sovraccarico ingestibile.
Un altro punto critico riguarda il limite di distanza imposto dal divieto di avvicinamento, fissato a non meno di 500 metri. In piccoli centri abitati, 500 metri possono coincidere con l’intero paese. In questi casi, è evidente che la misura del dispositivo elettronico non sia adeguata. È stato anche documentato un caso in cui il dispositivo è stato assegnato a una persona senza fissa dimora, che non aveva modo di ricaricarlo e che, in seguito, è stata aggredita. Di fronte a tutto questo, serve un approccio diverso. Non basta aggiustare la norma: è necessario immaginare un sistema in cui non siano solo le forze dell’ordine a farsi carico della protezione delle persone, ma che includa operatori esperti, come già avviene in Francia e in Spagna. Serve una centrale operativa che monitori, che telefoni, che offra indicazioni pratiche nei momenti critici.
Bisognerebbe chiedere anche ai giudici di conoscere più a fondo il funzionamento di questi dispositivi per evitare che si continui a dare credito a narrazioni semplificate e fuorvianti, come quelle proposte da certi servizi giornalistici.
Chi lavora a questi dispositivi è molto preoccupato, non tanto per l’immagine aziendale, quanto perché sa che, quando accade un femminicidio, spesso qualcosa si sarebbe potuto fare. Non con questo sistema, però. La sicurezza delle donne non può ricadere solo sulle loro spalle. Occorre anche decostruire l’idea che la risposta penale e in particolare il braccialetto elettronico siano la soluzione definitiva. Stiamo affidando a strumenti punitivi la gestione di fenomeni che richiederebbero prevenzione, ascolto, interventi strutturati. La proposta di introdurre un reato autonomo di femminicidio e di punirlo con l’ergastolo è emblematica di questo approccio. È una misura che trovo insensata perché i dati dimostrano che la recidiva per questo tipo di reati è molto bassa. Aumentare le pene non ha alcun effetto se non si interviene prima. Dire che vogliamo “buttare la chiave” non significa preoccuparsi davvero della sicurezza delle persone.
Il lavoro da fare è un altro, insomma.
Sì, perché altrimenti c'è il rischio, come sempre, di accontentare l'opinione pubblica con risposte facili che però non risolvono il problema. Aumentare le pene o incrementare le forme di controllo non stanno diminuendo il numero di femminicidi, ed è un dato di fatto. È quindi necessario intraprendere politiche diverse, politiche che partano dall'infanzia, che siano politiche educative. Se non facciamo questo sforzo, in realtà, se ci limitiamo a dire che basta aumentare le pene, imporre l'ergastolo o applicare il braccialetto elettronico, non stiamo affrontando davvero il problema. Da questo punto di vista, si tratta di fare un investimento culturale, ma anche economico, perché molto spesso le donne non denunciano e non riescono a fuggire dalla violenza, non per mancanza di coraggio, ma perché non hanno i mezzi economici né un posto dove andare. Quindi, se non affrontiamo questi aspetti, vuol dire che ce ne stiamo lavando le mani. Di questo sono molto convinta. E spesso mi sento rispondere che questo è un problema che esiste da sempre e che le sue soluzioni sono di lungo periodo. Bisogna iniziare. La risposta penale non è la soluzione che ci tira fuori da questa impasse, questo è certo.
Alla luce di quanto detto, esiste secondo te un modo alternativo in cui potersi confrontare con la frontiera della sorveglianza elettronica?
Se queste misure fossero applicate per i motivi giusti, sarebbero certamente utili. Vi faccio un esempio: perché applicarle in via cautelare quando in realtà non si conosce la persona? Il giudice non si fida, è comprensibile. Vogliamo mantenere un approccio correzionale, cioè pensare che il carcere abbia effettivamente funzionato e che il trattamento abbia avuto esito positivo? Va bene, allora proponiamo il braccialetto elettronico come strumento per deflazionare il numero dei detenuti, facendo uscire le persone dal carcere e alleggerendo il carico del sistema. Pensate che attualmente il 52% delle persone in carcere deve scontare una pena inferiore ai 3 anni.
Qualche consiglio
Tra i riferimenti citati in questa intervista:
Stanley Cohen, che, nel suo libro “Visions of social control”, propone un’analisi delle pratiche del controllo sociale e delle loro conseguenze, ripercorrendone le evoluzioni e i paradossi a partire dagli anni ‘60.
L’articolo di Thomas Mathiesen, “The Viewer Society: Michel Foucault's `Panopticon' Revisited”, in cui l’autore presenta il concetto di “sinopticon”, un sistema in cui le pratiche di controllo sociale sono diffuse capillarmente attraverso la tecnologia.
Nils Christie, che, in “Il business penitenziario. La via occidentale al gulag”, riflette sul modo in cui il controllo del crimine sia entrato a far parte di un settore economico importante e in grande crescita, a partire dal contesto statunitense.
Free Palestine
Il Palestinian Centre for Human Rights ha pubblicato un report che, in oltre 100 pagine, documenta «l’uso sistematico della tortura e del trattamento inumano sui palestinesi di Gaza detenuti da Israele dopo il 7 ottobre 2023»: è disponibile integralmente qui, in inglese; un articolo de La Stampa ne ha fatto una sintesi, in italiano.
Dopo 19 anni di detenzione nelle carceri israeliane, Moatasem Taleb Raddad era tornato libero a gennaio del 2025. Sotto la custodia israeliana, il suo stato di salute era però sensibilmente peggiorato. Giovedì 8 maggio, a pochi mesi dalla sua liberazione, Raddad è morto, all’età di 43 anni: quando era stato incarcerato, ne aveva 24. La sua storia, in inglese, su Middle East Eye.
«Le prigioni israeliane sono diventate vere e proprie bare»: commenta così la «negazione sistematica dell’assistenza sanitaria» la Commission of Detainees and Ex-Detainees, ovvero la commissione, con sede a Ramallah (in Cisgiordania), che monitora i diritti delle persone detenute palestinesi. Qui il comunicato del 6 maggio, in inglese.
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Un ringraziamento speciale per questo numero va a Perla Allegri.
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Bell'intervista!
Grazie per queste riflessioni, interessanti e stimolanti, grazie per aprire questi mondi ai nostri occhi