Casa circondariale di Biella. Credits foto: RaiNews.
Ciao a tuttə!
Questo è il numero due di Fratture, la newsletter che una volta al mese vi racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Oggi analizziamo il rapporto tra le droghe, il loro consumo e il carcere.
Come forse noterete, non abbiamo però riservato il dovuto spazio alla questione degli psicofarmaci, che per la sua estrema rilevanza e complessità ci proponiamo di approfondire in uno dei prossimi numeri.
Prima di iniziare, ancora qualche premessa.
Per riferirci alle persone comunemente definite “tossicodipendenti”, abbiamo deciso di attenerci alle indicazioni di ItanPud, preferendo la formulazione meno stigmatizzante di “persone che usano droghe” o simili.
Specifichiamo, infine, che il nostro posizionamento è di critica alla criminalizzazione del consumo di droghe e a tutti quei processi di disintossicazione che non pongano al centro la volontà individuale. Anche per questo motivo, porteremo a breve su Fratture un focus sugli interventi di prevenzione e riduzione del danno.
Buona lettura!
Proibire e punire
Il capitolo introduttivo della Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia (2023), a cura di Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle politiche antidroga, sembra studiato a puntino per evocare un collegamento diretto tra la dipendenza e la commissione di reati. Il sottosegretario esordisce con un aneddoto: la storia di una donna di diciassette anni che ha compiuto «gravi reati finalizzati ad acquistare stupefacenti», ma che grazie a una comunità terapeutica è diventata una «fra le guide di un gruppo di ragazze che guardano alla vita con speranza e con coraggio».
Mantovano non spende però neanche una parola per evidenziare l’inefficacia della legislazione italiana in materia di contrasto alle droghe, né tantomeno per sollecitare un maggiore ricorso a politiche incentrate sulla riduzione del danno. Niente di sorprendente, se si considera che la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha dichiarato di recente la fine della «stagione del lassismo», ritenendo probabilmente troppo permissive le già proibizioniste e punitive politiche sulle droghe.
Il Testo Unico Dpr n. 309/90 contiene due articoli che prevedono sanzioni penali e detentive per reati connessi allo spaccio: l’art. 73 riguarda la produzione, il traffico e la detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, con pene pari o superiori a sei anni di carcere (a eccezione dei fatti considerati di «lieve entità» dalle autorità competenti); l’art. 74 fa invece riferimento all’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, con condanne a partire da dieci anni di reclusione. Se sulla carta questa disciplina non punisce con il carcere la detenzione di droghe ad uso personale, nei fatti vendita e consumo possono sovrapporsi perché chi spaccia fa spesso uso di sostanze. Si è dunque passibili di una duplice condanna: come spacciatori e come persone che utilizzano droghe.
Questa normativa era stata resa ancora più severa con una legge del 2006, la cosiddetta Fini-Giovanardi, che aveva introdotto nel Testo Unico lo stesso regime sanzionatorio per droghe leggere e pesanti, prima differenziato. Nel 2014 la Corte Costituzionale ha però riconosciuto l’illegittimità dell’equiparazione tra le sostanze. Questa modifica aveva causato una crescita della popolazione detenuta nelle carceri italiane oltre alla capienza, un fenomeno che era già stato condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza Torreggiani nel 2013.
Malgrado l’intervento delle corti, gli effetti della legislazione sul sovraffollamento negli istituti penitenziari italiani, oggi al 127%, continuano però ad essere allarmanti: oltre 20.000 persone sono detenute per reati connessi alle droghe, cioè il 30% della popolazione ristretta in carcere; una cifra ben al di sopra della media europea (18%) e mondiale (22%).
In un rapporto pubblicato nel 2023, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha raccomandato agli Stati di «adottare alternative alla criminalizzazione, alla tolleranza zero e all’eliminazione delle droghe, valutando la depenalizzazione del consumo», nonché di «inserire e finanziare i servizi di riduzione del danno». Il Governo italiano, tuttavia, persevera nella direzione opposta, inasprendo le pene e proponendo soluzioni alternative al carcere che consistono però in altri tipi di privazione della libertà personale.
Da un lato, infatti, il Decreto Caivano - convertito in legge lo scorso novembre - ha aggravato la pena massima per fatti di «lieve entità», che da quattro è passata a cinque anni di carcere; una modifica che consente di applicare anche a questo caso la custodia cautelare, prima d’allora esclusa, aumentando le probabilità di sovraffollare gli istituti penitenziari. Dall’altro lato, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove ha ventilato una proposta molto controversa: trasferire le persone detenute che usano sostanze in comunità terapeutiche chiuse sulla falsariga di San Patrignano, prevedendo così un’altra reclusione.
Alla luce di questi sviluppi ulteriormente repressivi, un gruppo di quindici organizzazioni della società civile ha scritto una lettera ai parlamentari italiani per esortarli a discutere sugli esiti fallimentari delle politiche di «war on drugs» («guerra alle droghe»), inviando inoltre la copia del loro rapporto annuale indipendente conosciuto come Libro Bianco.
Una traiettoria incerta
Dal 2008 la responsabilità dell’assistenza sanitaria e terapeutica per le persone detenute che fanno uso di sostanze non è più in capo all’Amministrazione Penitenziaria, ma al Servizio Sanitario Nazionale. Sono quindi le Regioni e le Province Autonome a monitorarne le condizioni di salute, tramite le Aziende Sanitarie Territoriali e i Servizi per le Dipendenze (SerD). Secondo l’art. 94 del Testo Unico, chi sconta una pena detentiva «ha diritto di ricevere le cure mediche e l'assistenza necessaria all'interno degli istituti carcerari a scopo di riabilitazione» e «a tal fine il Ministro di Grazia e Giustizia organizza, con proprio decreto, su basi territoriali, reparti carcerari opportunamente attrezzati». Spetta invece alla Direzione del carcere il compito di «segnalare ai centri medici e di assistenza sociale regionali competenti coloro che, liberati dal carcere, siano ancora bisognevoli di cure e di assistenza».
Nel 2022 il 30% della popolazione penitenziaria aveva una dipendenza dichiarata, senza considerare la parte sommersa non intercettata dai servizi. Sempre nello stesso anno, sul totale degli ingressi in carcere, il 41% era rappresentato da persone che fanno uso di sostanze, la percentuale più alta dal 2005. Inoltre, se dal 2012 il numero totale di ingressi si è quasi dimezzato, quello delle persone che utilizzano droghe è rimasto pressoché stabile.
Grafico sullo storico 2010-2022. Fonte: Relazione annuale al parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, 2023.
Alla luce di questo quadro generale, quali interventi sono previsti nell’ambito penitenziario?
Per trovare risposta a questo interrogativo, ci siamo rivoltə a un’assistente sociale che opera nel SerD interno di un carcere italiano.
Anzitutto, per chi deve scontare fino a sei anni di carcere, il magistrato di sorveglianza può prevedere l’affidamento in prova in comunità esterna, ai servizi sociali o agli arresti domiciliari, sospendendo quindi l’esecuzione della pena detentiva (art. 94, Dpr 309/90).
I percorsi di trattamento delle dipendenze all'interno del carcere prevedono pratiche spesso disomogenee, differenziate su base regionale e locale. Ogni istituto penitenziario ha la possibilità di organizzare i propri servizi sulla base di due livelli. Il primo prevede la somministrazione di terapie farmacologiche per la gestione dell’astinenza e della disintossicazione, oltre a un primo contatto con operatorə sociali e psicologə. Il secondo, invece, focalizza la progettualità su dimensioni più ampie, come quella lavorativa ed educativa, per intervenire sul rapporto individuale tra la persona e le sostanze. Tuttavia, è importante sottolineare come in entrambe le fasi il trattamento interno sia spesso complicato dalla carenza di risorse e di organico - pochi assistenti sociali, educatorə e psicologə -, nonché dalla circolazione in carcere di psicofarmaci e droghe.
Il primo livello si caratterizza nella gran parte degli istituti (154 su 189) per la presenza all’interno del carcere di un SerD, che in alcuni casi gestisce una sezione ad hoc. Se in questo modo lə operatorə possono dare maggiore continuità alla terapia, il trattamento separato rischia però di generare tra chi usa sostanze un forte senso di stigma e marginalizzazione. Inoltre, può accadere che i posti disponibili in queste sezioni non siano sufficienti a soddisfare tutte le richieste.
Quando una persona che usa sostanze si trova poi in una sezione mista, la riservatezza riguardo alla terapia non è assicurata. Il rapper Armando Sciotto, in arte Chicoria, ex detenuto nel carcere romano di Regina Coeli di cui abbiamo raccolto la testimonianza, racconta:
«Perlomeno a Regina Coeli, ma so che funziona così anche in altre carceri, quando la mattina distribuiscono il metadone il diritto alla privacy dei detenuti tossicodipendenti viene mandato a fare in culo. E ti spiego il perché. Arriva il metadone al posto di guardia. La guardia esce fuori e inizia a urlare prima tutti i cognomi delle persone che devono assumere per terapia il metadone e poi un bel sonoro “METADONE” così tutti gli altri detenuti sanno che quella persona è tossicodipendente. Mi dici il mio diritto alla privacy dov’è andato a finire?»
In più, la polizia penitenziaria e alcune persone detenute possono nutrire forti pregiudizi nei confronti di chi usa sostanze. Riprendendo ancora il racconto di Chicoria:
«Per il personale, se sei tossicodipendente sei una nullità. Spesso finisci in sezione con altre persone tossicodipendenti. Se, però, finisci da un’altra parte, per i detenuti - soprattutto i più anziani e all’antica - sei una merda. Sono fermi agli anni Settanta e Ottanta, quando gli spacciatori erano quelli che vendevano veleno ai giovani, mentre loro facevano principalmente rapine».
Invece, per quanto riguarda il secondo livello, alcuni istituti possono offrire la possibilità, soprattutto a chi ha quasi finito di scontare la pena, di proseguire il percorso in un Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento di Tossicodipendenti (ICATT): una comunità interna, situata sempre nel perimetro penitenziario, le cui attività sono pensate proprio per favorire l'accompagnamento verso l'uscita.
Una volta fuori dal carcere, una persona che usa sostanze può entrare in una comunità esterna o continuare il trattamento dal proprio domicilio, se ne possiede uno. Tuttavia, il rimbalzo di responsabilità tra i servizi territoriali e la difficoltà di creare percorsi efficaci rendono la recidiva una possibilità più che reale.
Andrea, ex-detenuto che ha trascorso 25 anni nelle carceri italiane, ci spiega:
«Sai qual è il percorso di accompagnamento? Quando ti dicono arrivederci. Anche il più stupido degli assistenti ti dice: “Mi raccomando, non torni più, faccia il bravo!”. Tanto lo sanno che tornerai, ma non perché sei un criminale o cattivo. Bisognerebbe aiutare le persone tossicodipendenti dall’interno e dare loro un percorso reale.»
Le difficoltà dei SerD esterni derivano anche da scelte politiche di depotenziamento della sanità territoriale: il taglio dei finanziamenti e la tendenza a ridurre i servizi per le dipendenze hanno generato infatti una carenza sistemica di cui lə utentə in primis pagano le conseguenze. In più, Leopoldo Grosso, presidente onorario del Gruppo Abele, evidenzia nel Libro Bianco come i servizi esterni siano spesso preclusi alle persone detenute straniere: «I migranti finiscono con più facilità in carcere e ne escono meno agevolmente, fruendo in percentuali più ridotte delle misure alternative alla detenzione. Per i detenuti tossicodipendenti stranieri decade il diritto al trattamento in comunità terapeutica. La normativa nazionale per l’accesso alle cure sanitarie non urgenti, tra cui i presidi riabilitativi come le comunità o le case di cura, differenzia il diritto alla cura in base al possesso della cittadinanza e alla regolarità del permesso di soggiorno».
Di mano in mano
Le droghe, in carcere, entrano e circolano.
Ma come vengono introdotte le droghe in carcere, se i controlli su chi e ciò che arriva dall’esterno sono così pervasivi? Le droghe entrano negli istituti penitenziari in moltissimi modi: una notizia recentissima riporta l’utilizzo perfino di droni per recapitare sostanze stupefacenti e telefoni cellulari all’interno di alcune strutture detentive.
Secondo Chicoria, sono tre i fattori principali che ne favoriscono l’ingresso: il sovraffollamento, la carenza del personale e la corruzione di alcunə agenti penitenziari.
«Normalmente in un carcere ci stanno cinque postazioni per fare i colloqui. Se il carcere è sovraffollato significa che in queste cinque postazioni, invece che cinque detenuti, ce ne devono stare dieci, con anche i rispettivi familiari. Il numero degli agenti penitenziari, però, rimane uguale. Chiaramente, con il doppio delle persone nella stanza, occultare la droga è più facile.»
Nel 2019, la Procura di Biella ha aperto un’inchiesta giudiziaria sull’introduzione e la circolazione nel carcere biellese di molteplici sostanze stupefacenti, tra cui cocaina, crack ed eroina. Sono state indagate 89 persone tra detenutə, ex detenutə, familiari e uomini della polizia penitenziaria, di cui 56 sono state raggiunte da misure cautelari. Tre agenti sono stati messi agli arresti domiciliari e per altri tre è stata chiesta la sospensione dal servizio. Secondo la ricostruzione della Procura, gli agenti penitenziari coinvolti avrebbero percepito compensi tra i 600 e i 1500 euro per ogni pacco introdotto in carcere.
Tra le varie soluzioni a cui l’amministrazione penitenziaria ha pensato per arginare il problema dell’introduzione di sostanze in carcere, quella implementata all’interno della casa circondariale Lorusso-Cotugno a Torino tra il 2009 e il 2022 appare estremamente problematica. Per più di un decennio, infatti, al suo interno è rimasta operativa, in via sperimentale, una sezione detta «filtro», dove venivano recluse le persone sospettate di aver ingerito ovuli contenenti droga. Le celle, oltre a essere completamente spoglie per impedire l’occultamento degli ovuli, erano sprovviste di docce e servizi igienici. Scrive il Post: «Tutti dovevano usare un particolare wc in cui venivano raccolti gli eventuali involucri, il cui contenuto veniva poi sottoposto a un test chimico».
La chiusura ufficiale è avvenuta nel 2022: a determinarla - questa la motivazione addotta da Rita Russo, provveditrice regionale dell’amministrazione penitenziaria - la rottura del macchinario per la raccolta delle feci e l’individuazione degli ovuli.
Inutili erano state le richieste, negli anni precedenti, di interrompere la sperimentazione: già nel 2018 Monica Gallo, la Garante delle persone private della libertà personale a Torino, aveva descritto in un report la sezione filtro come «un ambiente gelido, sporco e maleodorante, [in cui, ndr] le persone [sono, ndr] sedute a terra con una coperta addosso, costrette a dormire senza brande e senza materassi e a passare le giornate in cinque o sei assieme in una stanza di otto metri quadrati, guardando attraverso le sbarre la televisione sulla scrivania degli agenti». Il solo sospetto di aver introdotto sostanze stupefacenti all'interno dell’istituto ha così comportato per le persone della sezione filtro una condizione detentiva lesiva di ogni diritto.
Le droghe, quindi, in carcere ci sono. Esiste, però, una grande differenza rispetto al mercato esterno: il costo della droga tra le mura dei penitenziari è decisamente più elevato.
Questa la testimonianza di Andrea:
«Una scatola di Subutex [terapia sostitutiva nella dipendenza da oppiacei, ndr], contenente quindici pastiglie, all’esterno del carcere costa cinque euro. In carcere, la sola pastiglia ne costa ottanta. Un grammo di cocaina arriva a trecento euro. Non tutti, però, spacciano: anche per spacciare bisogna avere soldi. Se hai cinque grammi di cocaina, in sezione sei tu a comandare. Tutto è alla luce del sole.»
Nella fase di ingresso in carcere, il denaro della persona ristretta viene registrato su un libretto di conto corrente: la moneta di scambio dentro all’istituto, quindi, non sono i contanti, ma i beni acquistabili attraverso i soldi depositati.
Se le persone detenute vogliono assumere delle sostanze, ma non se le possono permettere, si aprono altri scenari. In uno di questi, la questione degli psicofarmaci, forniti dall’amministrazione penitenziaria, è centrale.
Sempre Chicoria:
«Se io sono una persona che non ha una lira ed è tossicodipendente, secondo te una parte delle terapie che mi danno non la scambio per qualcosa? Possono essere sigarette, la pasta comprata dalla spesa. C’è gente che ti corrompe e ti propone un piatto di pasta a pranzo e a cena per una settimana in cambio della tua terapia. Se io non ho il becco di un quattrino, che faccio secondo te? Oppure ti minacciano. Ti vengono a dire che se non dai la terapia, ti meneranno. In carcere, poi, non puoi andare dalla guardia a dire che qualcuno ti ha minacciato. Diventi automaticamente infame e non ti vuole più nessuno.»
Un altro caso riguarda la droga in assoluto più accessibile all’interno del carcere: il gas butano, contenuto nelle bombolette a disposizione delle persone detenute per accendere il fornello e cucinare in cella. Svitando la valvola della bombola, si può regolare il flusso di fuoriuscita del gas.
«Quando si inala il butano, è come farsi di popper. Per continuare ad avere gli stessi effetti, come ad esempio annebbiamento del cervello, bisogna aumentare i dosaggi. Alcune persone si attaccano alla bomboletta anche per due minuti. Il butano, però, è freddo: quando scende in gola, il rischio è che si congelino i polmoni. Moltissime persone sono morte così.»
Morire in carcere e di carcere, sotto la tutela dello Stato, è ormai prassi quasi quotidiana, come ci dimostrano i 43 decessi avvenuti in carcere dall’inizio del 2024. Questi sono solo alcuni tra i casi più recenti: il 23 marzo 2023 una persona con dipendenza da sostanze, ristretta nell’istituto Lorusso-Cotugno di Torino, è morta dopo aver inalato butano; il 12 gennaio 2024 ha perso la vita nel carcere di Ancona un detenuto che aveva segnalato più volte un forte malessere, probabilmente dovuto a una crisi di astinenza non adeguatamente trattata.
L’ambiente del carcere, quindi, insieme alla condizione di fragilità in cui può trovarsi una persona che fa uso di sostanze, rischia di essere letale.
Chicoria:
“Io provo a chiamare l’assistente, ma il citofono è rotto in tutte le celle e allora inizio a fare casino. L’assistente sta sotto da solo, tre piani più giù, e non mi sente. Tu continui a sentirti male: se nella cella ci sono per lo più anziani all’antica, tu per loro sei un problema, sei il tossichello. Non è detto che ci siano in cella persone empatiche che capiscono quello che stai subendo: può anche essere che ti dicano “stai zitto, falla finita”, oppure addirittura che ti mettano le mani addosso. Magari ti può capitare invece di stare in una sezione di tossicodipendenti, in cui è più facile che gli altri empatizzino con te e si sbattano per chiamare l’assistente.”
Qualche consiglio
Ecco le nostre proposte per questo numero.
Secondo Marco Perduca (e anche secondo noi), disintossicare non è l’unica soluzione (il Manifesto).
Si può risolvere il sovraffollamento carcerario italiano spostando le persone detenute che usano sostanze in strutture dedicate? Articolo di Anna Paola Lacatena (il Mulino).
Le politiche sulle droghe e le loro problematicità. Un approfondimento di Maria Pia Scarciglia per Antigone.
Un articolo di Eleonora Martini, sulla criminalizzazione del possesso e dell’uso di sostanze stupefacenti (il Manifesto).
Luigi Mastrodonato propone uno sguardo diverso sulla dipendenza da sostanze (l’Essenziale).
Free Palestine
Il 29 gennaio 2024 le autorità italiane hanno arrestato, nella città dell’Aquila, Anan Yaeesh, a seguito di una richiesta di estradizione avanzata dalle autorità israeliane (Osservatorio Repressione).
Dal 7 ottobre a oggi, le condizioni di detenzione delle persone palestinesi nelle carceri israeliane sono ulteriormente peggiorate (Micromega).
Le detenute palestinesi del carcere di Damon sono state sottoposte a misure di ritorsione e punizione senza precedenti (Infopal).
Cosa sta succedendo a Rafah (il Post).
Per il 23 febbraio è stato indetto uno sciopero generale contro il genocidio in Palestina. Il 24, invece, è prevista a Milano una manifestazione nazionale.
Grazie per essere arrivatə fin qui.
Se vi va di scriverci per feedback, commenti e segnalazioni in risposta a questa mail o tramite i nostri canali, a noi fa molto piacere.
A presto!
Mafalda, Nicolò, Gina ed Elisa
Un ringraziamento speciale per questo numero va ad Andrea e Armando.
Fratture è una newsletter indipendente. Se ti piace il nostro lavoro, puoi iscriverti qui sotto e seguirci su Instagram, Telegram e Facebook. Per sapere qualcosa di più su di noi, visita la pagina About.